di Rock Reynolds
Non è tutto oro quel che luccica?
D’accordo, Sam Millar e John Crawley – una lunga militanza tra le file dell’IRA e conseguenti pesanti pene detentive alle spalle – sono due irriducibili, ma chi ha avuto modo di sentire le loro parole a Parma e a Piacenza nel corso della XX edizione del festival “Dal Mississippi al Po” ha potuto constatarne la serietà, la capacità rara di non finire mai sopra le righe e di non manifestare posizioni ostentatamente oltranziste. La lucidità delle loro analisi politiche e la serenità con cui le hanno proposte al pubblico hanno convinto anche i più scettici.
L’esperienza della lotta armata e della durezza dell’incarcerazione in prigioni britanniche in cui non sono state risparmiate a nessuno dei due trattamenti degradanti, quando non veri e propri pestaggi, hanno ispessito la loro scorza senza spegnerne l’entusiasmo. Sam Millar, che è stato compagno di detenzione di Bobby Sands, in una cella dei famigerati “X-Blocks” accanto a quella del carismatico leader dello sciopero della fame del 1981, è diventato nel frattempo un acclamato romanziere, con opere disponibili in italiano come On the Brinks, I cani di Belfast e Sul fondo del Black’s Creek (pubblicate da Milieu). John Crawley ha dato alle stampe Lo Yankee (Milieu), un memoir in cui racconta la scelta di entrare nei Marines degli Stati Uniti per imparare a combattere e per poterlo poi fare in seno all’IRA e ora sta scrivendo un romanzo autobiografico.
Le risposte che hanno dato alle nostre domande non sono mai state banali.
Come avete accolto gli accordi del Venerdì Santo e la pace susseguente che ha posto fine ai Troubles, la guerra civile nell’Ulster?
John Crawley: «Non vorrei mai una ripresa della lotta armata. Però, sono estremamente critico nei confronti della cosiddetta “pace irlandese” che, in realtà, è una strategia di pacificazione britannica. Gli inglesi definiscono pace l’assenza di una resistenza armata, mentre per i repubblicani irlandesi la pace dovrebbe essere la risoluzione della causa primaria del conflitto, ovvero la giurisdizione inglese sull’Irlanda, che non è stata eliminata. La democrazia nell’Irlanda del Nord ha pesanti lacune. Prima di tutto, c’è la partizione. C’è un sistema elettorale concepito esplicitamente per sovvertire qualsiasi esito favorevole ai cattolici, che finiscono immancabilmente a perdere le elezioni malgrado siano in netta maggioranza. Sono tutte cose nate nel 1920. Eppure, a distanza di oltre un secolo, le conseguenze di quel sistema ingiusto si fanno ancora sentire. Si pensa che la stragrande maggioranza della popolazione irlandese abbia votato in favore degli accordi del Venerdì Santo, quando in realtà il voto è stato espresso soltanto nelle sei contee dell’Ulster. Sono felice che oggi non muoia più nessuno, ma il fatto che la pace non abbia portato all’ottenimento del nostro obiettivo primario, ovvero l’unificazione dell’Irlanda in una sola repubblica priva di diversificazioni settarie, mi lascia insoddisfatto. Infatti, gli accordi di pace non modificano minimamente, sul piano costituzionale e pratico, la divisione tra le due Irlande e il fatto che l’Irlanda del Nord continui a essere parte integrante del Regno Unito. Questa non è l’Irlanda per la quale abbiamo combattuto, un’Irlanda che unisca tutti i suoi cittadini sotto la bandiera irlandese, non britannica. Io continuo a sostenere l’Irlanda del 1916 e quella dichiarata per la seconda volta nel 1919 dal primo parlamento irlandese, dichiarato fuorilegge dal parlamento inglese».
Sam Millar: «Quando venni a sapere degli accordi del Venerdì Santo, ovviamente ne fui felice perché speravo che potesse discenderne qualcosa di buono. Quando, però, ebbi il testo fra le mani, non capii com’era possibile che chiunque si dichiarasse repubblicano accettasse il sovvertimento di tutto ciò per cui, a partire dal 1969, avevamo combattuto, ovvero il controllo britannico e ogni forma di discriminazione. Oggi, viceversa, le regole vigenti sono state di fatto scritte a uso e consumo degli unionisti. Da nonno, voglio vedere la pace per i miei nipotini e la mia famiglia. Ma a qual prezzo? Infatti, l’idea che avevamo noi quando abbiamo combattuto nelle file dell’IRA era quella di liberarci dall’oppressione inglese. Da quel punto di vista, non è cambiato nulla: ci sono ancora dei prigionieri di guerra in carcere, la polizia che ha ucciso centinaia di cattolici è ancora al proprio posto. Dunque, non è sostanzialmente cambiato nulla».
Si sente spesso dire che l’Irlanda del Nord pacificata è un posto splendido e che Belfast, ora che non c’è più la guerra, è la città ideale per i turisti. Che idea ve ne siete fatti?
John Crawley: «Prima di tutto, quella che chiamano Irlanda del Nord si sorregge soltanto grazie ai finanziamenti britannici. Se non sbaglio, è al secondo posto per tasso di povertà dell’intera Europa e, comunque, dell’intero Regno Unito. È morta più gente per suicidio dopo gli accordi del Venerdì Santo di quanta ne fosse rimasta uccisa negli anni dei Troubles. Dunque, è un paese dall’aspetto magari scintillante, che però nasconde una realtà più difficile proprio perché la causa fondamentale della guerra civile è rimasta la stessa di sempre: il governo britannico non ha smesso di esercitare il suo potere ed è determinato, anche attraverso leggi concrete, a difendere l’integrità economica e territoriale del Regno Unito, senza fare menzione di un’Irlanda unita. Il principale think-tank politico britannico ha di recente sottolineato in un documento ufficiale l’assoluta necessità di mantenere tale integrità anche sul piano militare, soprattutto alla luce della guerra in Ucraina. Il braccio di mare tra Islanda, Groenlandia e Regno Unito va preservato per ragioni strategiche, pattugliandolo con sottomarini, navi e aerei. In fondo, è per quello che l’Inghilterra invase l’Irlanda: per avere un controllo militare sull’Atlantico settentrionale. Quindi, sì, la situazione oggi è migliore. Ma la situazione sarebbe migliore in qualsiasi paese in cui non si fosse sparato un colpo per la sua libertà e per la sua pace. Però, talvolta la gente deve combattere per i diritti che le sono negati: è una scelta che un popolo deve fare. Dietro il processo di pace c’è un’agenda segreta britannica di guerra. Nessuno ne parla. E la pace per gli inglesi è l’assenza di qualsivoglia resistenza alla loro amministrazione».
Sam Millar: «Posso solo aggiungere che sono stati gli inglesi a spingerci a fare la guerra. Ce l’ho con la nostra leadership che ha tradito le aspettative di un popolo, lasciando morire tanti volontari e soffrire tanta gente senza fare granché per giustificare il loro sacrificio. Capisco che la pace sia una buona cosa. Chi non lo capisce? Ma la pace c’era anche prima della guerra, solo che i cattolici erano cittadini di serie B. La polizia poteva fare ciò che voleva e non ho visto un solo poliziotto venire condannato per l’uccisione di cittadini cattolici. C’è chi pensa che la pace sia una gran cosa e che Belfast sia una sorta di Disneyland».
Perché nella Repubblica d’Irlanda si guarda con un certo fastidio alla lotta che avete fatto per l’unificazione del paese?
Sam Millar: «Quando l’Irlanda finalmente ottenne l’indipendenza dalla Gran Bretagna, il Nord del paese fu ignorato dalle stesse persone che avevano ottenuto tale risultato. In fondo, non ci sarebbero state l’IRA e la guerra se non avessimo avvertito il bisogno di cacciare le forze di occupazione inglesi. Storicamente, gli inglesi non rinunciano mai a nulla».
John Crawley: «La gente vuole sopravvivere e poi vuole prosperare, non appena ha la possibilità di farlo. E la gente del Sud ti dirà che ha ottenuto la propria libertà. Ed è vero, ma lo ha fatto alle spese delle sei contee del Nord. Non va dimenticato che, quando venne effettuata la partizione del paese, il novantacinque per cento delle industrie del paese aveva sede al Nord. E così la Gran Bretagna mantenne buona parte della forza economica del paese e il Sud fu costretto sostanzialmente a restare nel Commonwealth e a dichiarare fedeltà alla corona inglese e via discorrendo. Dunque, fu un accordo molto vantaggioso per il Regno Unito. Con il tempo, il “Free State” riuscì a migliorare la propria condizione e a creare posti di lavoro per molti e, alla fine, uno stato che funzioni è in grado di comprarsi la lealtà dei suoi cittadini. Noi, viceversa, non abbiamo potuto farlo. Nel nostro caso, la lealtà nasce dall’anima, dal cuore. La verità è che, malgrado la prosopopea che circonda la storia del nostro paese, l’ampia maggioranza del popolo irlandese non ha mai alzato un dito per la libertà del paese e per la sua difesa. A battersi è sempre stata una manciata di persone. L’esempio più chiaro è quello della rivolta del 1916 nella quale meno di 2000 irlandesi si batterono contro il dominio britannico mentre, nello stesso periodo, circa 200.000 irlandesi combattevano nelle file dell’esercito britannico, nella Grande guerra. Per non parlare dei 10.000 membri del Royal Ulster Constabulary, la polizia. In Irlanda facevi parte della resistenza oppure te ne stavi a guardare e molta gente se n’è rimasta a guardare, proprio com’è accaduto in Francia durante l’occupazione nazista. Resistere è una scelta pericolosa e capisco benissimo che non tutti si sentano di farlo. Ciò che non mi piace è che sia proprio quella gente a farci la predica e a tacciarci di essere dei terroristi. Molti hanno accusato il governo della Repubblica di Irlanda di essere restato a guardare. Non è restato a guardare: ha agito da braccio del governo britannico, fornendogli informazioni riservate, pattugliando i mari e via discorrendo».
Le critiche a voi riservate dalla stampa e dalla gente comune vi hanno ferito?
Sam Millar: «Ricordo bene quando, a quindici anni d’età, la nostra strada fu attaccata da una banda di lealisti e un vicino mi avvicinò e mi disse che c’era bisogno di gente che presidiasse il quartiere e io fui al tempo stesso intrigato e spaventato dall’idea di entrare nell’IRA. Ma, quanto al fatto che si criminalizzasse l’IRA, ricordo le parole di Karl Marx: “Se un inglese combatte contro gli irlandesi è un eroe, se invece è un irlandese a combattere contro gli inglesi…”. Criminalizzare chiunque si opponga agli inglesi è una strategia classica, proprio come diffondere l’idea che chi si batteva al Nord dovesse essere un delinquente dedito alle droghe. Ma la cosa non ebbe mai grande successo perché noi ci avevamo fatto il callo».
John Crawley: «A me non hanno realmente mai infastidito perché sapevo da dove venissero quelle critiche. E in Irlanda godevamo pure di grande sostegno e a me quello stava a cuore. Di critiche ce n’erano tante, soprattutto al Sud, e al Nord c’erano propaganda e censura. Io, che non sono cresciuto al Nord, non me ne sono mai curato particolarmente e, per questo, sono entrato a far parte dell’IRA. Non sto dicendo che non esistano persone che, uccidendo civili, si qualificano come terroristi. Israele lo fa tutti i giorni. Ma “terrorista” è un termine politico. So che anche l’IRA ha fatto cose che non sarebbero dovute accadere, ma si è quasi sempre trattato di errori commessi per incompetenza o informazioni lacunose. La stragrande maggioranza dei volontari dell’IRA non ha mai fatto nulla di cui vergognarsi».
Per quale ragione gli irlandesi sono così solidali con la questione palestinese?
John Crawley: «Gli irlandesi, per via della loro storia e soprattutto della grande carestia, hanno la tendenza a essere un popolo estremamente solidale. Persino quando fu istituito “Band Aid”, il loro contributo fu proporzionalmente superiore a quello di qualsiasi altro paese al mondo. La solidarietà è quasi automatica perché anche l’Irlanda è stata occupata e colonizzata. Sono molto felice che il governo di Dublino abbia riconosciuto lo stato della Palestina. È una cosa di cui, per una volta, posso andare fiero. La resistenza dei palestinesi è eroica e storica e io credo pure che stiano per far segnare un’importante vittoria sul piano strategico. Netanyahu e la sua cricca sono in grave difficoltà. Negli USA e nel resto del mondo sono in corso proteste come non se ne sono mai viste. Ovviamente, il costo per la popolazione è pesantissimo, ma è possibile che fosse l’unica strada per ottenere certe concessioni dal governo israeliano».
Sam Millar: «Qui al Nord, noi scorgiamo un parallelo tra ciò che i sionisti fanno ai palestinesi e ciò che gli inglesi hanno fatto e continuano a fare agli irlandesi. Mio padre era un profondo ammiratore del popolo ebraico. Ma lui non aveva la minima idea di cosa stessero facendo gli israeliani ai palestinesi, del fatto che gli avessero sottratto la terra e li stessero confinando in aree ristrette. Ovviamente, non tutti gli ebrei sono sionisti e io condanno i sionisti, non gli ebrei. E i sionisti con la propaganda ci sanno fare quasi quanto gli inglesi. Il sostegno per la causa palestinese in Irlanda è altissimo, quasi al 95%. Per me è incredibile che un popolo civilizzato possa uccidere e ghettizzare donne e bambini in questo modo. Posso solo sperare che sempre più popoli si schierino dalla parte dei palestinesi, costringendo Israele a cambiare rotta. D’altro canto, la guerra non è certo iniziata il 7 ottobre, bensì ottant’anni fa, e non è mai cessata».
Ora che la Gran Bretagna è uscita dall’Europa, in che mondo siamo?
Sam Millar: «Quasi quasi, sono contento che ci sia stata la Brexit perché si è trattato di un autogol degli inglesi: è stato creato di nuovo un confine che era sparito. Ed è un guaio per gli inglesi perché la presenza di quel confine non piace neppure ai lealisti dell’Ulster».
John Crawley: «Io vivo esattamente sul confine e, nonostante i tentativi dello Sinn Fein di convincerci che il confine non esista, esiste e come. È un confine economico ed è un confine politico, per quanto non presidiato da militari. È difficile dire cosa succederà. Il fallimento del referendum per l’indipendenza scozzese è stato una grande delusione perché un suo successo avrebbe significato tanto anche per noi. Tra l’altro, gira con insistenza la voce che il governo britannico stia tentando di far passare un provvedimento che renderà la maggioranza del 50% + 1 insufficiente per il successo di un referendum costituzionale che, dunque, richiederebbe una maggioranza ben più ampia. Pertanto, non credo che il governo britannico abbia la minima intenzione di indire un referendum sull’abbattimento del confine».
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