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Implicazioni antropologiche dell’Intelligenza Artificiale: dialogo tra Benasayag e Pennisi

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di Antonio Salvati

La comparsa a livello di massa di ChatGPT ci ha costretto ad aprire gli occhi su una realtà che oggi è oggettivamente assai diffusa. La connessione di ChatGPT a Internet, soprattutto a Google, ci ha indotto a meglio comprendere cosa significa trasferire la responsabilità decisionale dalle persone alle macchine o meglio ad interrogarci su cosa rimanga per l’essere umano se programmi di intelligenza artificiale come ChatGPT possono eseguire compiti complessi e prendere decisioni al posto nostro. Per Miguel Benasayag la crescente presenza e influenza dell’intelligenza artificiale «sta comportando una sorta di colonizzazione delle dimensioni umane da parte degli algoritmi».

Questo fenomeno richiede un’analisi approfondita delle implicazioni antropologiche e sociologiche. Benasayag lo fa dialogando con Ariel Pennisi. Questo dialogo è raccolto nel volume snello ChatGPT non pensa (il cervello neppure) (Jaca Book 2024 pp. 160 € 15,00) che offre un’analisi e una panoramica accessibile del fenomeno dell’intelligenza artificiale, con particolare attenzione a come ChatGPT stia influenzando e modellando la nostra società. Attraverso una comprensione più approfondita di questi processi, possiamo essere meglio preparati per affrontare le sfide e le opportunità che il futuro ci riserva. Da tempo Benasayag si sta occupando di quel fenomeno sempre più rilevante che definisce la crescente delega delle funzioni cerebrali umane all’intelligenza artificiale e ai big data. Questo processo ha portato a un cambiamento significativo nel modo in cui vengono prese le decisioni in settori cruciali come macroeconomia, demografia ed epidemiologia.

Se il lavoratore dell’era fordista-taylorista poteva rafforzarsi divenendo il più possibile simile alla macchina, cioè alienandosi al massimo, oggi ci chiediamo se la delega di funzioni cerebrali rischia di atrofizzare in alcuni casi e ridurre in altri la forza del cervello. L’operaio – per Benasayag – diventa polivalente nella misura in cui perde i suoi saperi e adatta il suo corpo, i suoi muscoli, alla macchina. La differenza tra l’artigiano e l’operaio, per esempio, «è che il primo utilizza i suoi muscoli in un rapporto di co-creazione con la materia, mentre nella nostra interazione con l’intelligenza artificiale (come nella caricatura di Chaplin dell’operaio alla catena di montaggio) noi atrofizziamo alcuni circuiti e ne iper-sviluppiamo altri per effetto del feedback». Per quanto riguarda le previsioni sulla possibilità di ridimensionamento dei compiti grazie all’impiego dell’intelligenza artificiale, per Benasayag, «l’attività virtuale mediata da algoritmi moltiplica i compiti sotto forma di impieghi precari, poiché l’intelligenza artificiale automatizza più la gestione che il lavoro; in altre parole, i lavoratori non vengono sostituiti, bensì gestiti in un modo diverso».

Benasayag ci invita a elaborare un modello di ibridazione tra la tecnica e gli organismi viventi che non si riduca a una brutale assimilazione. Considerando che il cervello fa continuamente ipotesi, mentre la macchina non fa ipotesi, ma calcola; anche quando chiediamo a ChatGPT di elaborare un’ipotesi, «in realtà si tratta di una ricombinazione». I cervelli, a partire dall’esperienza corporea, «fanno ipotesi, commettono errori, ritornano sui loro passi, ci riprovano». Einstein diceva, «io non cerco, trovo» … cioè, prima trovo e poi cerco. E ciò che troviamo – osserva Benasayag – «ha a che fare con la nostra singolarità». La macchina cerca, «non smette mai di cercare, e di tanto in tanto trae una conclusione mediante il calcolo, in funzione dell’informazione che riceve». Per la macchina non c’è mai un problema: ci sono sempre nuove informazioni. La macchina non può essere stupida, non può desiderare, «non può avere un’avventura, dove esiste un muro non può ostinarsi a sostenere l’inesistenza del muro… Mentre noi esseri umani passiamo il tempo a fare cose che per questa razionalità sono incomprensibili». Il cervello, dal punto di vista della neurofisiologia moderna, progetta e cerca ciò che verrà dopo, azzarda delle previsioni. La macchina, invece, calcola in modalità discreta e trae conclusioni «sulla base delle correlazioni che stabilisce, ma non predice realmente». Quella che a volte definiamo «predizione» nelle macchine è una modellizzazione che traccia delle linee e calcola. Dal canto suo, il cervello fa ipotesi errate, ritorna sui suoi passi e si plasma progressivamente. La macchina ottiene risposte e ha un carattere performativo molto potente, «perché quando deleghiamo funzioni alla macchina imponiamo ai nostri possibili la disciplina dei possibili della macchina».

Le nostre interazioni con il web producono dati. In questo senso siamo importanti per il web perché tutto quello che vi è presente lo inseriamo noi, attraverso i nostri gusti, interessi o bisogni vitali. Quello che noi chiamiamo IA – e pensiamo che sia chissà quale cervellone- altro non è che la registrazione della mobilitazione degli umani sul web finalizzata a scopi di automazione o scopi di distribuzione. Automatizzare significa abilitare una macchina a comportarsi come un umano copiando i gesti degli umani. Tanti compiti e azioni che noi compiamo articolatamente. I Big Data leggono i micro-comportamenti, catturano i movimenti di una vita in modo «segmentato e focalizzato e ricostruiscono profili che corrispondono a comportamenti esteriori delle persone, così come compatibilità tra profili che si traducono in relazioni interpersonali». È una specie di corsa in cui si va accorciando la distanza tra i nostri movimenti e ciò che i Big Data sono in grado di prevedere. Se siamo sempre più simili alla «proposta» del profilo, che cosa significa questo? In questo senso, il profilo è ciascuno di noi sotto forma di serie di dati che possono essere identificati e rappresentati per qualunque utilizzo.

In relazione alla questione delle post verità è vero che, come percepisce molta gente, ChatGPT e il mondo degli algoritmi intensificano il loro effetto in relazione a testi, teorie e foto, e fanno sì che l’opinione pubblica galleggi in una totale incertezza. Dal canto suo, «il cervello non ha di per sé la capacità di distinguere il virtuale dal reale; voglio dire, è in quanto il cervello non esiste sol tanto nell’esperienza pratica, corporea che può esservi una distinzione tra realtà e virtualità. Per questo, la virtualizzazione della vita, così come la sua smaterializzazione – la vita vissuta attraverso lo schermo, diciamo – ci indeboliscono; perché è l’intero sistema di integrazione sensoriale a permetterci di capire e di pensare, insieme a tutti i materiali (libri, informazioni, immagi ni), ma meno stimoli sensoriali abbiamo, meno capiamo e meno siamo in condizioni di stabilire differenze tra ciò che è vero e ciò che non lo è». Il regime dell’informazione non conosce né contraddizione né verità. In sostanza, il problema della «post-verità» è strettamente legato alla perdita dell’esperienza e al fatto che la gente è sempre più informata e sempre meno formata.

La tecnologia è quella che è. Diviene urgente – per B Benasayag – fare perno sulla singolarità del vivente, «sulla soggettività e sulla singolarità della stupidità umana, che è la stupidità del desiderio. L’intelligenza artificiale non può desiderare, e noi non possiamo organizzare la nostra vita platonicamente, dimenticando la negatività dei corpi». Certo che il robot non è stupido, non ha nevrosi e non si ammala, «ma noi dobbiamo costruire un mondo in linea con la nostra natura, con i corpi, con il desiderio e anche con la stupidità. Dobbiamo fare nostra la complessità del vivente, dove non c’è uomo nuovo che tenga, considerato il disastro che ha rappresentato il razionalismo, e se è vero che la macchina programma mille volte meglio di noi, tuttavia noi abbiamo bisogno di una società incasinata, perché senza il casino la trasparenza e la calcolabilità della macchina non sono vivibili per noi». Resistere alla fascinazione tecnologica è una sfida del nostro tempo. Lo sviluppo tecnologico, infatti, mette continuamente alla prova il nostro senso comune, ossia un sentimento largamente condiviso rispetto a ciò che si può considerare “normale” o “naturale” nel dispiegamento delle nostre vite.

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