Se la poesia è un’arte sublime ma difficile, diventa ancora più difficile se si fonde con la musica. Eppure, in parecchie delle canzoni di Sergio Endrigo, ci sono versi che non ambiscono a passare alla storia della letteratura, ma che hanno conquistato il cuore di milioni di uomini e donne e che forse hanno diritto ad un piccolo spazio nel grande mare della poesia con la «P» maiuscola. L’ideale, poi, è che a versi di valore corrisponda una musica adeguata, lontana da una banale struttura fra strofa e ritornello. E crediamo di poter dire che la musica di Endrigo è quasi sempre adeguata al valore del testo.
Per trent’anni, Endrigo è stato, con Fabrizio De André, Giorgio Gaber e Luigi Tenco, uno dei nostri più ispirati e creativi cantautori. Non a caso fece parte di quella ristretta schiera di personaggi che si rivelarono a Milano, alla fine degli anni Cinquanta, attorno alla scuderia di Nanni Ricordi, l’erede della famosa casa editrice che aveva in catalogo la musica di Verdi, Puccini e di quasi tutto il grande melodramma italiano.
Nonostante il successo, Endrigo era un personaggio schivo, eppure estremamente popolare, e non solo in Italia, poiché in molti paesi d’Europa, in America del Sud e su su fino a Cuba, le sue esibizioni sono sempre state richieste a furor di popolo e a furor di popolo accolte. Un personaggio che ha cantato l’amore, con accenti chiari e sinceri, ma anche le contraddizioni della società, con un occhio alla gente che subisce e che spera in un domani migliore, anche se – come lui cantava – «la speranza è un fiore che frutti non ne dà». E ben lo sapeva, Endrigo, che la speranza da sola non gli sarebbe bastata e che il primo pane avrebbe avuto un sapore amaro per lui ragazzo profugo, che insieme a tanti italiani dovette lasciare Pola, la città dove era nato e che per lui era diventata straniera.
Quanto ai versi con cui può far rima, il campionario è talmente esteso da non essere indagabile. Però sappiamo quali sono le rime più usate dai nostri parolieri, quelli delle canzoni di una volta: amore e cuore, amore e dolore e mai mai, per esempio, amore e stupore, amore e furore, amore e fragore, tanto per dire le possibili varianti. In Endrigo non troverete mai la rima più ovvia, cioè quella con amore, parola che lui usava pochissimo. Lui trovava altre rime. Scrisse Gaio Fratini che Endrigo ricorreva piuttosto a rime insolite come «sorriso-viso», «fiore-cuore», le stesse – diceva – che incantarono Umberto Saba, le più difficili rime del mondo.
Usandole, queste rime, al momento essenziale, si può essere sublimi o rischiare il fondo della banalità. Il problema di Endrigo – proseguiva Fratini – è proprio qui: egli compone sul filo del rasoio, tra il sublime e il banale che è in fondo l’umile quanto impervio sentiero per giungere alla poesia.
Anche grazie a Endrigo, la canzone italiana in quegli anni è cambiata quasi totalmente. Il suo sforzo è quello di associare ai suoi testi ricercati e preziosi una musica ugualmente preziosa ma popolare, alternando parti più ricercate ad altre con echi più semplici, più fruibili, stando alla larga da inutili intellettualismi. Si potrebbe dire che Endrigo ha trovato la quadratura del cerchio: pur non lasciandosi mai cadere nel banale, egli cerca la semplicità, prestando contemporaneamente orecchio alla grande tradizione melodica e lirica del nostro paese.
Dal 1966 la sua popolarità e le sue canzoni lo portano al Festival di Sanremo dove si classifica secondo con Adesso sì. Nel 1967, l’anno del suicidio di Tenco, è sesto con Dove credi di andare ma nel 1968 – il mitico ’68 – riesce finalmente a fare centro con Canzone per te, cantata in coppia con il brasiliano Roberto Carlos. Qualcuno dirà che la canzone è sì bella, ma che la vittoria è giunta anche grazie ad una sorta di risarcimento del pubblico verso Luigi Tenco e la categoria dei cantautori. Sergio Endrigo non accetta questo teorema e con ragione: Sanremo non ha mai risarcito nessuno e quanto all’amore, su quel palcoscenico, vi ha sempre trionfato. E quella di Endrigo è una canzone d’amore, intrisa di tristezza per un abbandono, ma compensato dalla lucida consapevolezza che ciò che ha legato i due protagonisti non potrà mai essere cancellato.
Come Tenco, De André e Gaber, Sergio Endrigo non esita ad affrontare le tematiche sociali: anche perché egli sa che quelle che si cantano e che comunicano col pubblico, non sono solo canzonette. Ma non tralascia di cantare quel delicato rapporto tra persone che è costituito dall’amore. Perché – dice a chi gli è vicino – la gente da me vuole canzoni che ne parlino. E lui continua a scriverne di bellissime, come Aria di neve, Era d’estate, Mani bucate, Se le cose stanno così, Teresa. Dopo Pasolini, si accosta ad altri poeti, che sente vicini alla propria ispirazione: lo spagnolo Rafael Alberti, il cubano José Marti, il brasiliano Vinicius De Moraes. Quest’ultimo, che è stato come Neruda anche ambasciatore, è l’autore delle canzoni di Orfeo negro e de La ragazza di Ipanema, tra le altre. Un grande personaggio, De Moraes, che viene tradotto in Italia nientemeno che da Ungaretti. Tutti questi personaggi, con l’aggiunta di Sergio Bardotti e Luis Enriquez Bacalov, vanno a comporre un quadro creativo dal quale discendono canzoni di profondo respiro. Poi c’è un altro incontro fondamentale, quello con Gianni Rodari, l’autore di tante favole e filastrocche e romanzi per ragazzi.
Rodari concepisce il rapporto con i bambini in modo completamente nuovo: insegnare loro com’è fatto il mondo, renderli consapevoli – attraverso il divertimento – che ogni cosa ha sempre un risvolto che bisogna saper cogliere. Tra Brasile e Cuba, Endrigo continua intanto a viaggiare. Con l’isola delle canne da zucchero ha un rapporto privilegiato: lo conoscono, lo amano, lo vogliono. E lui non si sottrae ma ampia gli orizzonti anche al suo mondo creativo. Forse è anche per questo che, a dieci anni dalla morte in questo mondo che dimentica tutto, la sua memoria è sempre viva.
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