di Margherita Degani
Tutto ha inizio la sera dello scorso 13 giugno, in una villa signorile all’interno dell’antico borgo di Villafredda (Tarcento). Uno strano rituale, dalle radici antiche eppure inedite, stava prendendo forma nel cortile, all’ombra del massiccio torrione d’ingresso, mentre il buio della notte già si allungava sugli alberi e sui muri della facciata. Gli ospiti, indossata una maschera, si stavano infatti preparando ad entrare, agitati da un’eccitazione che non poteva più essere contenuta. Lo spettacolo teatrale stava per iniziare!
E’ così che ho cominciato a domandarmi cosa ci fosse di tanto entusiasmante in quell’occasione; infondo di spettacoli, nei luoghi più disparati, ormai se ne vedono tanti. Ma il fatto di coprirsi il volto, rinnegando in un certo senso la propria chiara identità, rendeva tutto differente. Più intrigante. Lo stato di elettricità che si respirava tra il pubblico doveva per forza essere alimentato della maschera, conclusi. Ma perché? Che cosa rappresenta per l’uomo? Per quale motivo viene continuamente riproposta e declinata, negli ambiti più disparati?
Non è possibile evitare di pensare al cinema, con la miriade di film legati alla presenza di questo oggetto: dalla Maschera di ferro al Silenzio degli innocenti, da The Mask ad Eyes wide shut, passando attraverso i notissimi supereroi ed i film dell’orrore. Non è da meno la televisione, soprattutto nelle serie ispirate al giallo, dove un ballo o una festa in maschera diventano ispirazione ed occasione per cruenti delitti.
Ce ne parla Poirot, tanto quanto il Giovane ispettore Morse- e chissà quanti altri. Il teatro, inevitabilmente, si fa bacino di un ulteriore impiego e sviluppo della maschera; dalle opere in cui viene indossata dagli attori, per rappresentare visivamente qualcosa, fino a quelle in cui – evidentemente – sono gli esponenti del pubblico a farlo, per “sparire” di fronte alla recita degli artisti. Ma, ancora, sono l’arte e la storia stesse che potrebbero fornire numerosi altri esempi, portando ad una rette fitta ed intricata di connessioni e riusi.
Le prime maschere zoomorfe calavano sul volto degli sciamani, permettendo loro di ricreare il legame divino tra uomo e natura. L’Antica Grecia, successivamente, attraverso le funzioni di Dioniso – dio del vino, dell’ebbrezza e del teatro- le impiegò nelle rappresentazioni almeno a partire dal IV-V secolo a.C.; canonizzate e stereotipate in base ai tipi sociali e morali, intrapresero allora il percorso verso la modernità, fino alla Commedia dell’Arte ed al teatro di Carlo Goldoni.
Si pensi, poi, alle maschere funerarie romane, ad immagine degli antenati e ricavate in cera direttamente dal volto del defunto; conservate in un armadio di legno nell’atrio delle dimore patrizie, erano un oggetto fondamentale per il culto domestico degli avi, tanto da essere indossate e portate in corteo durante i funerali dei consanguinei.
Viaggiando nel tempo tra i fasti della Grecia e di Roma, meritano una menzione anche le celebrazioni delle Antesterie – in onore di Dioniso, per la rinascita della natura- e dei Saturnali – a carattere più popolare ed in onore di Saturno, in corrispondenza del solstizio d’inverno e dunque della fine del ciclo dell’anno solare.
Nel primo caso citato, si osserva un risvolto cupo, ma sicuramente interessante: il dodicesimo giorno si riteneva, infatti, che gli spiriti dei morti tornassero ad aggirarsi sulla terra e, proprio per difendersi, le persone ricoprivano le porte di pece, si chiudevano all’interno dei templi ed indossavano maschere. Leggermente diversi i Saturnali, che, al di là della credenza secondo la quale le divinità infere vagassero in corteo per tutto l’inverno, prevedeva anche che gli schiavi diventassero uomini liberi e che, a volte, fossero serviti dagli stessi padroni.
Veniva inoltre eletto una sorta di princeps, caricatura della stessa classe nobile e vestito con eccentriche maschere dai colori sgargianti. Queste le origine del moderno carnevale.
Con il tempo l’uso delle maschere si diffuse in tutta Europa, soprattutto nella forma del Ballo Mascherato, divertimento per centinaia e centinaia di persone che sovraffollavano intere sale e teatri. Il vero eccesso aveva inizio attorno alla mezzanotte, protraendosi fino all’alba. A volte accadevano cose orribili, soprattutto là dove mancasse un sistema di vigilanza ed era questo il motivo per cui spesso le dame erano accompagnate da qualcuno. Ma il bello stava nel potersi fingere chiunque, senza il rischio di essere riconosciuti; le differenze sociali non avevano grande importanza, era l’occasione ideale per avventure galanti e, in generale, il momento adatto a ricercare le emozioni più insolite.
E’ infine il 1948 quando Jacques Lecoq, noto attore teatrale, giunse in italia per studiare le forme delle maschere del teatro classico e della Commedia dell’Arte; ne nascerà la famosa ed inquietante maschera bianca, che copre completamente il volto, lasciando solo i fori necessari agli occhi ed al respiro.
Dopo aver ripercorso, per quanto brevemente, una piccola parte della storia di un oggetto tanto insolito, credo sia possibile trarre delle conclusioni sull’enorme fascino che esercita. La maschera è misteriosa e controversa, mezzo simbolico dalle radici antiche ed ambivalente fin già dagli albori della vita dell’uomo: medium di poteri e dimensioni divine, legame con gli antenati, strumento tanto di protezione quanto di divertimento. Può nascondere l’indesiderato o mostrare qualcosa di diverso, rendere graziosi oppure imbruttire, inquietare o sedurre.
Pensiamo del resto all’origine etimologica ed al legame indissolubile che sviluppa con il termine di “persona”, intesa quale individuo. Se infatti maschera deriva da una probabile voce preindoeuropea (masca) che significa “fuliggine” o “fantasma nero”, poi traslato nel concetto di “strega” durante il Medioevo, la parola persona mostra uno sviluppo ancora più interessante. Trae origine dall’etrusco – φersu, “maschera teatrale”- corrispondente al greco prósōpon (πρόσωπον), “davanti agli occhi altrui”, impiegato per designareilvolto dell’individuo, la maschera dell’attore ed il personaggio rappresentato.
Da qui si passa al verbo latino personare, composto di per (attraverso) e sonare (risuonare), riferito agli attori del teatro che indossavano maschere lignee sia ai fini dell’interpretazione, sia per espandere l’effetto della voce. Con il passare degli anni, l’aspetto più curioso è incarnato proprio dal passaggio che si verifica tra oggetto-maschera e la più specifica designazione del concetto di persona-individuo.
La vera domanda, allora, diventa un’altra. Come potremmo non provare tanta attrazione per qualcosa di così indissolubilmente legato alla nostra essenza?
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