di Rock Reynolds
È un confine sempre più sfumato quello che separa il bene dal male in tempi in cui, a quanto sembra, anche la distinzione tra demonio e santità pare farsi meno netta. E, ogni volta che le cose ingrigiscono e le differenze si appiattiscono, il materiale che ne emerge si presta a storie intriganti. In fondo, la letteratura di quello si nutre: del concetto sempiterno di conflitto. Se, per giunta, si parla di letteratura inglese e, nella fattispecie, di giallo, noir o, per maggiore esattezza, mystery, il piatto è servito.
Si ritiene, più o meno a sproposito, che il genere poliziesco sia d’evasione – ma come si fa ad accettare un’idea così superficiale, considerato che il tema della morte e della violenza è primario? – e, dunque, si tende a considerare il romanzo giallo il compagno ideale delle vacanze. Gli inglesi lo hanno capito benissimo e di autori britannici che, grazie a tale assunto, si sono rimpinguati il conto corrente ce ne sono stati e ce ne sono tuttora tantissimi. In generale, insomma, il mystery è soprattutto britannico. Qualche nome? Agatha Christie, Sir Arthur Conan Doyle, Wilkie Collins, R. Austin Freeman, Peter James, P. D. James, Anne Perry, Ruth Rendell, Dorothy L. Sayers, Edgar Wallace, Val McDermid, Ian Rankin, William McIlvanney, e la lista potrebbe allungarsi notevolmente.
La fortuna del cosiddetto giallo è stata spiazzante e lo dimostrano le cifre astronomiche delle vendite complessive del genere e, in particolare, quelle di autori senza tempo come la Christie e Conan Doyle. Il perché del successo del giallo è sfaccettato, ma, come mi hanno confessato due autrici di primo piano nell’olimpo del genere – le compiante Anne Perry (la cui serie di gialli storici ambientata nella Grande guerra ha per protagonista proprio un cappellano militare, plasmato sulla figura reale del nonno dell’autrice) e Ruth Rendell – la possibilità di provare sensazioni forti di fronte all’immancabile omicidio e di avere sul finale del romanzo, dopo una girandola parossistica di emozioni, una risoluzione positiva o comunque la possibilità di esorcizzare il male intrinseco di una storia da una comoda poltrona, da una sedia a sdraio in spiaggia o, perché no, da un sedile di un treno è allettante.
La quantità di romanzi gialli è talmente elevata che si sono scomodate diciture diverse e, talvolta, addirittura sottogeneri in cui incasellarli. Per dire la verità, non mi è mai interessato particolarmente etichettare un libro: per me ci sono solo libri interessanti e libri noiosi. Ma, da qualche tempo, ha preso piede la tendenza a raccontare storie fosche di omicidi, violenze e cattiverie attraverso indagini condotte da religiosi.
È in questo contesto che si colloca Omicidio in parrocchia (Einaudi, traduzione di Letizia Sacchini, pagg 346, euro 19) di Richard Coles, un reverendo dal passato quantomeno insolito. Per non dire burrascoso. Polistrumentista, negli anni Ottanta ha affiancato Jimmy Somerville nei Communards, dopo la fuoriuscita del cantante dai Bronsky Beat e, negli anni Novanta, riflettendo sulla morte di diversi amici per HIV, si è avvicinato alla religione, diventando cattolico ai tempi dell’università e facendo ritorno alla chiesa anglicana nel 2001 nelle vesti di pastore. Attualmente, insegna, conduce trasmissioni radiofoniche ed è ministro del culto. Dal 2022, ha avviato un’interessante carriera di scrittore di gialli, con tre romanzi di successo aventi per protagonista il canonico Daniel Clement, un sacerdote anglicano che abita da solo con la madre – anziana ma arcigna e sempre al passo con i tempi – e con i due adorati cani. In Omicidio in parrocchia, è alle prese con l’omicidio del figlio del nuovo pastore, arrivato da poco a Badsaddle per alleviare il suo carico di lavoro. Il ragazzo, sedicenne, ascolta musica goth e predilige un abbigliamento dark e un atteggiamento ribelle, un po’ come la sorella. La sua uccisione brutale e dagli aspetti rituali accanto a un altare non ha una spiegazione plausibile e Daniel, anche grazie alla collaborazione con l’amico Neil della polizia – con il quale non sono infrequenti gli scontri, le discussioni e le contrapposizioni ideologiche, ma la cui amicizia non è mai realmente a rischio – dovrà indagare dentro le sue più profonde convinzioni e le sue più fastidiose fragilità umane per dare un senso a una realtà più fosca dell’inferno preconizzato dalle Scritture.
Daniel è scapolo e le sue inclinazioni non sono chiarissime, un modo elegante per affrontare il tema dell’omosessualità caro all’autore che non ne ha realmente mai fatto mistero. L’ambiente chiuso di una comunità rurale inglese sul finire degli anni Ottanta, in pieno “thatcherismo”, complica il quadro, rendendo la vicenda più intrigante e amplificandone la suspense, nonostante si abbia sempre la sensazione che l’autore tenga maggiormente all’analisi sociale di una certa Inghilterra e all’introspezione psicologica dei personaggi che allo sviluppo vero e proprio della trama. A farla da padrone sono i pettegolezzi, i sussurri di vecchie comari così come i segreti del confessionale e le maldicenze di uomini invidiosi. La noia e la fede si fanno compagnia e solo le certezze nella ripetitività della liturgia danno la forza Daniel per andare avanti nel suo ministero. Perché a un sacerdote – è quasi una legge universale – talvolta non si riconosce il diritto di avere sentimenti e imperfezioni. E i cani, da buon romanzo inglese che si rispetti, non possono mancare: in questo caso, una coppia di simpatici bassotti. Senza dimenticare che, nelle campagne inglesi, la nobiltà terriera mantiene ancora una presa salda sul mondo, anche in considerazione dell’attaccamento britannico mai realmente in discussione alle tradizioni, ai rituali ancestrali e alla storia.
A molti verranno in mente i racconti di Padre Brown, lo straordinario personaggio creato da G.K. Chesterton nel 1911, ormai un classico senza tempo. Questo prete cattolico che sembrava non avere qualità particolari in realtà risolveva delitti con una sagacia impensabile e un’elasticità quasi mediterranea, vagamente stridente con la compostezza anglicana. Oggi la serie televisiva inglese che ne racconta le gesta ha rinverdito i fasti dello sceneggiato RAI dei primi anni Settanta in cui, nei panni dell’investigatore-sacerdote, recitava un credibile Renato Rascel.
James Runcie non è un sacerdote, ma la vita talare la conosce bene dato che suo padre, Robert Runcie, è stato arcivescovo di Canterbury dal 1980 al 1991. La serie dei misteri di Grantchester (da cui la fortunata serie televisiva che porta il medesimo titolo) esplora tematiche care a molti autori che scelgono di indagare nell’anima di un sacerdote e, attraverso i suoi occhi, nel cuore di una comunità. Per qualche motivo – presumibilmente per trasmettere una sensazione più immediata di comunità coesa ma permeata da frizioni e meschinerie – la scelta cade quasi sempre su ambienti rurali e le vicende criminali ruotano intorno ad amori falliti o impossibili così come alle classiche invidie dei vicini. Nel caso della serie di Grantchester, a indagare sui delitti perpetrati nella parrocchia di un villaggio del Cambridgeshire sono il piacente reverendo Sidney Chambers e l’ispettore Geordie Keating.
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