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Comprendere l’America: elezioni, cultura e il Texas secondo Francesco Costa”

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di Antonio Salvati

Il prossimo 5 novembre gli elettori americani sceglieranno il prossimo presidente degli Stati Uniti. Quotidianamente siamo raggiunti – potremmo dire sommersi – da notizie sui candidati, sulla loro popolarità, da analisi e sondaggi di vario tipo. Oggettivamente si parla poco dei programmi dei due contendenti. Percepiamo che quelli principali siano quelli relativi a inflazione, immigrazione e sanità, in un contesto in cui la necessaria riduzione del debito impone una strada di consolidamento fiscale a entrambi i candidati. Francamente proviamo fastidio per l’utilizzo di alcune parole chiave della campagna elettorale americana come quella di Illegal aliens, utilizzata da Trump in riferimento agli immigrati (mentre i democratici deplorano il fatto di considerarli “illegali” e utilizzano il termine undocumented immigrants). Facciamo noi italiani, inoltre, fatica a comprendere le modalità di svolgimento delle elezioni presidenziali statunitensi tra primarie, National Convention e grandi elettori. Incomprensioni legate anche alle incongruenze tra il sistema americano e quello italiano per via della diversa forma di governo dei due Paesi: l’Italia è una Repubblica parlamentare, mentre gli Stati Uniti sono una Repubblica presidenziale. Ma – almeno per quanto mi riguarda – restiamo stupiti del linguaggio sguaiato di Trump, chiedendoci se veramente tanti statunitensi si riconoscono nel suo pensiero, nelle sue espressioni. Ecco allora la necessità di affidarsi a chi quella realtà la frequenta da tempo e la conosce bene, come Francesco Costa. Il suo volume Questa è l’America. Storie per capire il presente degli Stati Uniti e il nostro futuro (Oscar Mondadori 2021, pp. 216, € 13,5), seppur di qualche anno fa, ci offre importanti chiavi di comprensione, tratti dalla cronaca quotidiana, per capire maggiormente i cambiamenti e le trasformazioni dell’America, «quella vera», raccontandoci «il doloroso ma inesorabile smarrimento di un paese speciale che diventa ogni giorno più normale».

Costa non esita a snocciolare tutti gli stereotipi di cui ci nutriamo. Da tempi immemorabili coltiviamo il luogo comune secondo cui gli Stati Uniti userebbero la mano pesante contro l’evasione fiscale e i reati dei cosiddetti colletti bianchi, «ma in carcere ci vanno ancora soprattutto ragazzi neri». Amiamo ragionare e discettare sulla cultura americana e sulla loro idea di Stato e libertà, paragonando tutto a quello che succede qui da noi, «senza sapere o tener conto che gli Stati Uniti sono un paese mezzo vuoto: ci sono più persone nella sola New York di quante ce ne siano in quaranta dei cinquanta Stati americani». Crediamo che gli Stati Uniti siano ancora un paese molto puritano, «ma il 40 per cento dei bambini americani oggi viene messo al mondo da donne non sposate, e l’uso ricreativo della marijuana diventa legale in più Stati ogni anno che passa». Abbiamo sempre creduto che l’intera politica estera statunitense dipendesse dal petrolio, dalla necessità di trovarlo e importarlo a prezzi sempre più convenienti, «ma oggi gli Stati Uniti sono praticamente indipendenti dal punto di vista energetico». Crediamo che gli statunitensi siano tutti armati fino ai denti – ci sono effettivamente più armi che persone – ma non sappiamo che la metà delle armi in circolazione in America è posseduta dal 3 per cento della popolazione. Siamo convinti che gli Stati Uniti siano un paese egoista e individualista, «ma sono il primo al mondo per soldi donati in beneficenza dai suoi cittadini in proporzione al PIL (il secondo paese al mondo, la Nuova Zelanda, dona appena la metà degli Stati Uniti; l’Italia un quinto)». Non teniamo conto che gli Stati Uniti sono un paese mezzo vuoto: «ci sono più persone nella sola New York di quante ce ne siano in quaranta dei cinquanta Stati americani». In altri termini, ci sono molti luoghi del mondo di cui sappiamo meno che degli Stati Uniti d’America, evidentemente, ma non ci sono posti – sottolinea Costa – «con un divario più ampio degli Stati Uniti tra quello che crediamo di sapere e quello che sappiamo effettivamente». L’influenza statunitense nei nostri consumi è così gigantesca e longeva – e tanto sono grandi la nostra cultura da bar e il nostro bisogno di mostrare quanto la sappiamo lunga –«che pensiamo di conoscere bene l’America quando in realtà, nella gran parte dei casi, la nostra idea è un impasto di luoghi comuni e poche informazioni concrete».

Ci separano dagli statunitensi non solo la forma di governo, ma anche l’approccio o la forma mentis nei confronti delle istituzioni centrali.  Se in Europa invochiamo fortemente i nostri governi a occuparsi di noi, negli Stati Uniti l’invocazione è «lasciateci in pace». Anche «la più sensata e innocua legge federale viene vista da molti americani con qualche fastidio, sulla base della profonda convinzione di essere perfettamente in grado di badare a sè stessi, di non avere bisogno di qualcuno che a Washington stabilisca cosa fare e come farlo». Pur in presenza della terribile pagina della schiavitù, l’idea attorno alla quale è nato il predominio economico statunitense è la libertà: «la libertà di pagare meno tasse possibile e decidere autonomamente se investire i propri soldi per costruirsi una pensione o per curarsi, senza che debba occuparsene lo Stato come fosse una mamma; la libertà di fare quello che si vuole del pezzo di terra che si possiede, senza dover chiedere permessi a qualcuno per costruirci sopra una casa; la libertà di difendere la proprietà privata come meglio si crede, quindi anche con le armi, senza affidarsi necessariamente a un’autorità che comunque sarà riconosciuta fino a un certo punto». E Costa spiega che la venerata cultura imprenditoriale statunitense, con la sua enfasi sulla libertà d’impresa, sul laissez faire, sul valore del sacrificio individuale e della concorrenza, «così come lo straordinario ingegno che permette ancora oggi agli americani di sfornare ogni anno una quantità di idee, brevetti, invenzioni, intuizioni e premi Nobel che non ha paragoni nel pianeta», affonda le sue radici in questo contesto. In buona parte degli Stati Uniti da secoli si guarda al Congresso e alla Casa Bianca con una distanza e uno scetticismo in buona parte indipendenti dal fatto che a Washington comandino i democratici o i repubblicani.

In nessun altro posto come il Texas – spiega Costa – si può osservare una versione in miniatura degli Stati Uniti. In miniatura per modo di dire. Il più grande Stato americano escluso l’Alaska, il più popoloso dopo la California, «per decenni il Texas ha trovato posto nel nostro immaginario quasi esclusivamente come il luogo dei ranch e del caldo torrido, dei cowboy a cavallo e dei pozzi di petrolio, dei cactus e del deserto, della musica country e dei rodei». Il Texas è oggettivamente il vero centro di gravità della politica americana. Un luogo che più volte ha precorso tendenze e fenomeni che poi sono arrivati altrove. È uno Stato di confine, è il fronte in cui si combatte ogni battaglia politica sull’immigrazione e dove Donald Trump vuole costruire il muro; «ma è anche lo Stato in cui una vastissima, integratissima e fondamentale comunità di immigrati e americani di seconda generazione sta trasformando tutto, come e più che nel resto del paese». La sua cultura è quintessenzialmente statunitense. «I texani» ha scritto il premio Pulitzer Lawrence Wright «si considerano un distillato delle migliori qualità dell’America. Amichevoli, sicuri di sé, laboriosi, patriottici, semplici. Gli altri li considerano la carta d’identità dell’intera nazione, e pensano che il Texas sia un posto in cui gli impulsi più sconclusionati e rinnegati dal resto del paese possano scatenarsi. Pensano che i texani celebrino inconsapevolmente l’individualismo e vedano il governo come una specie di kriptonite che indebolisce le imprese. Siamo noti per essere sfacciati e spavaldi; incuranti del denaro e della nostra vita personale; un po’ creduloni, ma comunque gente che è meglio non fare arrabbiare; insicuri, ma ossessionati dal potere e dal prestigio». In Texas c’è un patriottismo assai esasperato «e al tempo stesso poco dogmatico da risultare persino affascinante: forse per la celebratissima storia dello Stato, che si guadagnò la libertà dal Messico con una rivoluzione e diventò una repubblica indipendente molto prima che nascessero gli Stati Uniti». Offre un panorama geografico enorme e complesso – dal deserto al Rio Grande, dai Monti Guadalupe alle foreste subtropicali, dalle paludi alle pianure – «che è difficile non mettere in relazione alla sbruffonaggine dei suoi abitanti: e anche chi arriva, specialmente chi arriva dall’Europa, non può fare a meno di notare quanto sia grande in ogni momento la quantità di cielo con cui riempirsi gli occhi». Se fosse una nazione autonoma, il Texas sarebbe il sesto più grande produttore di petrolio al mondo. Eppure c’è altro: ed è proprio a partire dalle risorse naturali che capiamo la diversità del Texas e le sue grandi trasformazioni odierne. Non solo molta ricchezza ma anche corruzione e fenomeni sui quali non è possibile esercitare nessun controllo, come le fluttuazioni internazionali dei prezzi. Una fortuna che potrebbe indurre lo Stato e i cittadini a non investire in altri settori. Invece, il Texas ha il più alto potenziale degli Stati Uniti per la produzione di energia solare. Inoltre, il Texas ha un’industria tecnologica tra le più avanzate al mondo, soprattutto nel campo delle biotecnologie, e supera il più noto settore californiano in termini di esportazioni di semiconduttori. Ospita le sedi di grandi società come Dell e AT&T, per non parlare ovviamente della NASA: «basti pensare alla battuta più famosa dei film di esplorazioni spaziali, “Houston, abbiamo un problema”». Nel 2011 la California attraversava un momento economicamente così complicato che il suo governatore super-democratico, Gavin Newsom, chiese un incontro al suo omologo texano, il super-repubblicano Rick Perry, per farsi dare qualche consiglio. Quando tornò in California, raccontò: «Loro sono aggressivi, noi no. Loro sanno quello che vogliono, noi no». Aggiungo – dopo queste brevi considerazioni – che non a caso la battaglia per l’abolizione della pena di morte negli USA passa principalmente per il Texas.

Questo e tanto altro contiene il volume di Costa. Chiudiamo ricordando Abraham Lincoln, sedicesimo presidente degli Stati Uniti d’America, che guidò l’Unione alla vittoria nella guerra di secessione americana, riuscendo a mantenere uniti gli Stati federati. A gennaio del 1865 Lincoln avviò le pratiche per approvare un emendamento costituzionale che abolisse definitivamente la schiavitù in tutti gli Stati Uniti. Tre mesi dopo i secessionisti si arresero, e la guerra finì ufficialmente; Lincoln fu ucciso appena sei giorni dopo, il 15 aprile 1865. All men are created equal – l’incipit di un suo noto discorso – era diventato per tutti l’obiettivo verso il quale guardare, lo scopo finale di ogni fatica, il tipo di paese a cui ambire. I problemi – afferma Costa – da risolvere restavano, ovviamente, ma la strada era stata segnata. L’America era rimasta un paese speciale.

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