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Il ritorno delle divisioni Est-Ovest: la guerra in Ucraina e l’Europa

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di Antonio Salvati

Dopo decenni di pace, negli ultimi mesi nel dibattito del vecchio continente – sviluppatosi dopo l’aggressione russa in Ucraina – considerare l’esplosione di una nuova guerra convenzionale ad alta intensità in Europa non è più una fantasia. Non pochi importanti rappresentanti istituzionali considerano che la guerra è intorno a noi, all’orizzonte. E l’ombrello protettivo americano non sarà necessariamente presente in futuro. Viviamo da tempo un ritorno drammatico della frattura in seno all’Europa fra il suo Est e il suo Ovest. Alcuni anni fa pochissimi avrebbero ipotizzato che la polarizzazione tra la Russia, e più in generale l’Asia, l’Unione europea e gli Stati Uniti si sarebbe acuita e concretizzata lungo l’antica faglia, quasi dimenticata, che delimitava le due tradizioni storiche europee, quella latina occidentale e quella post- bizantina. Ce ne da conto un interessante volume di Egidio Ivetic, Est/Ovest. Il confine dentro l’Europa (Il Mulino, 2022, pp. 172, € 14) che ci spiega cosa sta accadendo nell’Europa di mezzo in cui ci sono regioni contese tra diversi stati, in questa fascia che passa in mezzo al continente, dall’Adriatico e dall’Egeo fino al Baltico. È una lunga faglia, in cui di volta in volta «i vari Est e i vari Ovest hanno disputato le reciproche aree di pertinenza nel continente». Oggi rimangono problematici due contesti. Un primo contesto concerne i paesi che si trovano a ridosso della Russia, che furono repubbliche dell’Unione Sovietica o satelliti sovietici e che stanno di qua e di là del confine dell’Unione europea e della NATO. Si tratta «di una zona di contatto in cui la Russia ha collocato dal Seicento a oggi le proprie frontiere verso l’Occidente. Ed è qui che l’Occidente cerca il suo confine definitivo». Il secondo contesto è quello balcanico con i suoi numerosi stati, i suoi grovigli nazionali all’incrocio anche qui tra Est e Ovest. Gli esiti drammatici delle vicende legate a queste due aree difficili si sono visti nei casi della Jugoslavia e dell’Ucraina: «uno stato che si è disgregato in una guerra civile e uno che è stato invaso per motivi geopolitici. Entrambi gli stati si trovano sulla faglia tra Est e Ovest, vittime dell’essere situati a metà tra dinamiche più grandi». Per Ivetic occorre andare oltre i fatti noti, oltre alla mole di informazioni e di analisi. Siamo infatti di fronte a una svolta storica, a un passaggio d’epoca. I processi più profondi che appartengono all’Europa, «e che tendiamo a rimuovere e a dimenticare, necessitano di spiegazioni storiche, di approcci storici, non basta il resoconto analitico». Che cosa ci insegna la storia? «Che i confini non sono così netti, ma possono essere impugnati in un nuovo disegno politico del mondo, e giustificare nuove guerre. La conoscenza delle divisioni precedenti in seno all’Europa ci può liberare dai falsi miti».

Le frontiere sono una parte assai sensibile dell’essere Europa: «sono davvero molte – certe sono antiche, altre più recenti –, come in nessun altro continente, e rappresentano una geografia a sé». L’ossessione per le frontiere nazionali è stata uno dei mali dell’Europa tra le due guerre mondiali. L’Europa è complessa e complicata, con 47 stati grandi, medi e piccolissimi, con oltre quaranta lingue e culture nazionali, più di trecento identità regionali, diverse tradizioni confessionali – cattolica, luterana, calvinista, ortodossa – differenti tradizioni religiose (cristiana, ebraica, islamica). Tutti questi sono aspetti imprescindibili del suo essere. La complessità, certo, si trova in tutti i continenti, «ma qui essa è elaborata alla maniera europea, ossia con ripetute guerre, ripetute definizioni di confini, come non si osserva altrove nel mondo». L’estensione del continente europeo, compresa la parte russa fino agli Urali e al fiume Ural, è di 10 milioni di chilometri quadrati, ed è di poco superiore a quella del Canada, della Cina o degli Stati Uniti. La parte geografica orientale – che comprende Russia, Ucraina, Bielorussia, Moldavia, Georgia, un segmento del Kazakistan, a cui si possono aggiungere Azerbaigian e Armenia, anche se spesso collocati in Asia – corrisponde a 5 milioni di chilometri quadrati, la metà esatta. Ovest ed Est europei, in senso geografico e in quanto superfici, quindi si equivalgono. Presi singolarmente sono meno estesi del Brasile e dell’Australia; sono qualcosa come due Argentine, o tre Iran.

Siamo stati incapaci di leggere i segni premonitori dello scontro Occidente versus Russia. Una verità contro l’altra. Uno scontro che oggi non ci appare più come un’eccentricità, bensì come la testimonianza dello spirito del XXI secolo. Il pensiero nel nostro tempo – avverte Ivetic – sembra essersi ridotto al riciclo e all’assemblaggio di frammenti di idee e di ideologie passate, secondo convenienze del tutto contingenti, legate al calcolo transitorio e secondo opportunismi di maniera. Oggi però l’esito di quello scontro è drammatico: dal 2022 è la narrazione di chi si fa la guerra. Siamo agli esiti di un percorso retorico che non abbiamo saputo cogliere fino in fondo. La retorica antioccidentalista ha connotato la Russia di Vladimir Putin nell’ultimo decennio. Una retorica elementare, «basata sul confronto noi/loro, in cui le differenze di sostanza sono trascurate, poiché entrambe le parti condividono i mercati, le finanze e il sistema economico, che è mondiale (il sistema, dopo tutto, è capitalista), per privilegiare gli aspetti simbolici, i richiami alla storia, ogni pretesto per marcare la differenza (reale o inventata) tra Occidente e non Occidente».

La retorica europeista non è stat in grado di far chiarezza su quale rapporto avere con la storia della Russia: un vicino ingombrante o una parte d’Europa? L’Unione Sovietica subentrò alla Russia imperiale, «ma il suo ruolo di completamento rispetto all’Europa non fu più lo stesso». Sin dal suo costituirsi, l’Unione Sovietica divenne l’altro per antonomasia in Europa, altro da arginare con un cordone sanitario costituito da Polonia e Cecoslovacchia, nate nel 1918, e Romania. I tre paesi, assieme a Jugoslavia, Bulgaria, Albania, furono il primo Est definito come tale: l’Est di un’Europa che non voleva avere nulla in comune con l’Unione Sovietica, letteralmente un altro pianeta. La Seconda guerra mondiale modificò tutto. Alla fine ha portato proprio questa Unione Sovietica, vincitrice sul nazismo, fin nel centro della vecchia Europa, a Berlino, Praga e Vienna. Qui, la Guerra fredda, ovvero i contrapposti blocchi nemici, «ha fatto ergere muri veri e psicologici tra democrazie e regimi». Fu la fine dell’Europa che si era imposta su scala globale con il suo imperialismo nel corso del lungo Ottocento e fino al 1923. Il tracollo dei sistemi imperiali britannico, francese, olandese e belga tra il 1946 e il 1962 confermò la fine di una traiettoria europea occidentale. Il continente ha cominciato a riunirsi dopo il 1989-91, al proprio interno, mediante il passaggio dalla Comunità economica europea all’Unione europea attraverso un processo di aggregazione al nucleo originario degli stati fondatori, affiancato dall’espansione della NATO verso l’Est, che di fatto ha permesso l’unificazione di contesti affatto differenti, compresi tra il Baltico, l’Adriatico e il Mar Nero, innervati da antiche frontiere. Da questa integrazione erano stati esclusi, a parte i tre stati baltici, gli altri stati già sovietici. Pochi ricordano che fino al 2008 si parlava di stretta collaborazione con la Russia, anche perché l’Unione europea dipendeva e dipende dalle risorse energetiche russe. Accadde poi, a fronte dell’ipotesi di un allargamento della NATO alla Georgia, nell’estate del 2008 l’intervento militare russo in quel paese, il primo fuori dai confini dopo il 1989. Un fatto decisamente e sciaguratamente minimizzato, che diede tuttavia inizio a una progressiva contrapposizione tra Russia e Occidente. L’Europa integrata non aveva ancora elaborato una visione su come rapportarsi con la sua parte orientale. Nel vuoto è riemerso il confine, più indotto che reale, tra Occidente ed Eurasia, «complice anche una progressiva penetrazione economica della Cina lungo la Belt and Road Initiative, detta banalmente la nuova via della seta. La faglia storica, che segna le soglie dei paesi di tradizione ortodossa, postbizantina, dal Baltico, attraverso l’Ucraina fin dentro i Balcani, negli ultimi anni si è complicata, complici l’Unione europea e la Cina, non meno della Russia». Eppure Mosca oggi è una città ultracapitalista, la scenografia è quella delle metropoli globali. L’Est «è Est più che altro perché si dichiara tale». Questo a dispetto delle élites occidentaliste che in tutta la modernità sono esistite nelle capitali dell’Europa orientale, spesso in disaffezione con la massa della popolazione, che magari ama coltivare le tradizioni. I problemi dell’Est ci sono. E sono legati ai diversi percorsi di modernità, al fatto che settant’anni di regime comunista, di dittatura, di corruzione, clientelismo e delazione, di assenza dell’idea liberale, non si possono nascondere né dimenticare. Il XX secolo è ricordato, nella vasta area tra l’Occidente e la Russia, anche per lo spostamento dei confini, per gli esodi, le migrazioni forzate, per le tragedie collettive e quelle individuali. Del resto, questa è la storia europea.

In Europa tantissimi luoghi sono segnati dalla storia. Come dice Iosif Brodskij: «Vi sono luoghi in cui la storia è inevitabile, come un incidente automobilistico – luoghi in cui la geografia provoca la storia». Si riferiva a Istanbul. Bisanzio, alias Costantinopoli, alias Istanbul, in cui l’Est/Ovest sono la stessa cosa. Sul Bosforo si percepisce il passaggio tra mondi. Seduti in riva, a Eminönü, si possono «osservare le portaerei della terza Roma che attraversano le porte della seconda per fare rotta verso la prima».

Tante sono le storie contenute e raccontate nel libro di Ivetic cha accompagnano il lettore a ricostruire la storia dell’ultimo millennio dell’Europa di mezzo. Si sofferma sul ruolo non adeguatamente messo in rilievo dagli storici di Bisanzio, l’altra Roma dalla quale si è irradiata la religione ortodossa (cioè bizantina) e sulla cui importanza, alla fin fine, la parentesi sovietica ha inciso poco, come dimostra oggi il patriarca Kirill. L’Europa di mezzo è il luogo delle divisioni, delle frammentazioni interne, siano esse etniche, religiose, politiche o nazionalistiche. «Terra dei rancori», cioè di scontri e tragedie immani, dove convivono fianco a fianco, talvolta pacificamente, talaltra ignorandosi, sovente scontrandosi, lingue e religioni diverse: dal cattolicesimo polacco alla religione russo-ortodossa, da quella serbo-ortodossa dei Balcani all’Islam sunnita della Bosnia. Paesi variamente e a lungo divisi tra due prospettive, quella europeista, alla quale hanno sempre guardato in modo diverso ma convinto Paesi come la Polonia, l’Ungheria, la Slovenia e altri. Poi quelli legati alla prospettiva slavista, oppure filorussa, che porta a ritenere l’“Oriente” qualcosa di radicalmente altro rispetto all’Europa: una prospettiva seguita dalla Bielorussia, dalla Serbia ma anche da parte dell’Ucraina. In questa prolungata incertezza, al centro geografico di questa instabilità, è scoppiato il conflitto russo-ucraino, che dura almeno a partire dall’invasione putiniana della Crimea del 2014 e che ha condotto all’”operazione speciale” russa del 24 febbraio scorso. Eppure «l’Ucraina non è un Paese complicato», riflette Ivetic, non è né Balcani né Caucaso; la sua divisione tra europeisti filo-polacchi da una parte e russofili dall’altra è una spaccatura che ha portato alla luce tutte le questioni malamente celate in questi anni, a Mosca come a Kiev, a Bruxelles come a Washington. Comunque finirà, «i segni che lascerà questa guerra dureranno decenni, un secolo di certo», conclude Ivetic.

Un libro con tanta storia. Ma anche tanta geografia, la chiave per orientarsi nel nuovo caos mondiale di inizio XXI secolo.

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