di Gianmaria Zamagni *
Il ponderoso studio di Josephine Quinn, docente di Storia antica all’Università di Oxford e già autrice del volume In Search of the Phoenicians (Princeton U.P., 2018) guida lettrici e lettori attraverso una storia lunga quasi 4000 anni: comincia dal Levante antico, a Byblos, fiorente porto egizio sul finire del terzo millennio a.C. e si ferma alle scoperte geografiche della fine del ’400 dell’era comune.
Lo stile narrativo è assai coinvolgente, grazie a (ben trenta) capitoli “monografici” brevi, ma supportati da cartine e da un apparato iconografico assai ben scelto (sebbene non sempre discusso nel merito) e da un corpo note davvero considerevole per mole, estensione, aggiornamento e precisione. Dal “Palazzo di Minosse” si inseguono così contatti e commerci (“Le vie dell’ambra”) ed eventi naturali (“The Erupting Sea”, cioè l’eruzione dell’odierna Santorini) fino all’“Invenzione della Grecia” e alle guerre Persiane, per poi passare alla storia romana quasi “a dorso d’elefante”, grazie a Pirro (318-272 a.C.) e poi ad Annibale (247-183 a.C.). Nell’ultima parte del volume lo sforzo più evidente consiste invece nel mostrare i contatti sempre presenti e rinnovati con l’Asia centrale e l’estremo Oriente, da Alessandro Magno (356-323 a.C.) a Marco Polo (1254-1324).
Metodi innovativi usati in maniera costante (ad esempio, le datazioni al radiocarbonio di anfore o le analisi degli isotopi dello stronzio ritrovati sui denti dei reperti, oltre agli studi di genetica antica) consentono all’autrice di sfatare o relativizzare molti luoghi comuni e mostrare un network di contatti, anche nell’evo antico, molto più ampio di quanto spesso si voglia credere; i commerci – solo per citare un esempio assai significativo – continuavano fra le diverse sponde del Mediterraneo fra imperi talora contrapposti in guerra.
Se ciò non bastasse, Quinn non rinuncia a perseguire un coerente e complesso intento argomentativo, secondo cui il pensiero “civilisational” che – per dirla in breve – lei stessa associa al classico, assai discusso, Clash of Civilizations di Samuel P. Huntington, sarebbe recentissimo (1996).
Non si trova traccia di contrapposizione netta fra Oriente e Occidente, meno che mai in termini valoriali, nell’antichità: prende forme embrionali, assai gradatamente, attraverso Agostino, la divisione dell’Impero Romano, Carlo Magno, per poi consolidarsi – qui in maniera decisiva – con Montesquieu, che per primo afferma la superiorità politico-culturale dell’Europa centrale rispetto all’“Oriente”. Ma se Montesquieu si fece interprete di un’osservazione per così dire “etnografica” dei sistemi politici – constatazione di valore sì, ma piuttosto statica – Huntington senza mezzi termini preconizzava il loro scontro violento, con il rischio di contribuire con ciò stesso a renderlo reale.
L’intento argomentativo di Quinn, in direzione opposta, può essere mostrato anche da un esempio testuale. Nel corso del testo ricorre in tre punti decisivi il termine bilingual o bilingualism.
Questo termine serve a mostrare un ponte tra diverse popolazioni al tempo dell’epica omerica: «This is not yet however civilisational thinking: a shared heritage is not the same as an exclusive one, and these Greek songs defined an open community. Trojans appear to worship the same gods and speak the same language as Greek in the poems – or at least bilingualism is so common that it never gets in the way» (p. 167).
In un secondo luogo, il bilinguismo appare invece strumentale allo sfruttamento dell’impero fenicio, ora vinto nelle guerre puniche: «The Romans kept back one work by the agricultural writer Mago, to be translated into Latin by a team headed by a bilingual senator: they knew they still had things to learn from their old enemy» (p. 247).
Molti secoli dopo, a Baghdad, il bilinguismo è infine ridotto a un ponte stretto che però consente il prezioso passaggio di alcune opere classiche, soprattutto greche, al medioevo europeo: «Persian scholars translated into Arabic works that had already been translated from other languages into their own, and since there was comparatively little direct Greco-Arabic bilingualism, Arabic translations of Greek were often made from Syriac versions» (p. 351).
Per concludere, dunque, sebbene i germi di quel pensiero “civilisational”, per scontri di culture, fossero già presenti, è solo a partire dal 1748 che «Montesquieu could contrast the ‘genius for liberty’ in Europe’s states with despotic Asia’s “spirit of servitude”» (p. 415). Eppure, ben al di là della contrapposizione (e gerarchizzazione) di Oriente e Occidente, la mappatura dell’intero globo terrestre secondo rigide “linee di faglia” tra le civiltà è tutta figlia del pensiero più recente. Una descrizione della comunità globale «in terms of lonely trees and isolated islands» (ibid.), quest’ultima, che – oltre a non spiegare quasi «anything at all» è, secondo la storica di Oxford, «demonstrably, historically, wrong» (ibid.).
Se è nostro interesse comprendere la realtà globale è al contrario necessario portare l’attenzione sui tanti contatti, scambi – e anche commerci – internazionali, e al bilinguismo, ai numerosi bilinguismi culturali che questi portano con sé. Ed è in questo senso urgente, come conclude Quinn, «to find new ways to organise our common world»; parole, queste che costituiscono anche l’explicit del libro, e a cui v’è davvero poco da aggiungere.
* Berlin Bilingual School
– Goethe Universität Frankfurt am Main
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