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Tre teste non fanno testo. Quarant’anni dai falsi Modigliani

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di Marcello Cecconi

Avvenne nell’estate di quarant’anni fa. Tre universitari livornesi organizzarono la burla con spirito goliardico senza immaginare l’eco mediatico in cui sarebbero stati intrappolati e lo sconvolgimento causato nel mondo della critica d’arte italiana. L’occasione per Pietro Luridiana, Pierfrancesco Ferrucci e Michele Ghelarducci si presentò con il centenario della nascita (1884) di Amedeo Modigliani. L’estate del 1984 a Livorno si sarebbe celebrata con un’esposizione che aveva l’obiettivo di evidenziare la sua breve e poco documentata carriera di scultore e che sarebbe stata preceduta dalla ricerca di alcune opere che la leggenda narrava che l’artista, deriso dai colleghi cittadini, avrebbe gettato nei fossi livornesi prima di partire per Parigi.

Da tempo Vera Durbè, conservatrice del Museo Progressivo d’Arte Moderna di Livorno, insieme al fratello Dario, sovraintendete al Museo d’Arte Moderna di Roma, stavano organizzando con fatica l’esposizione e quando con l’aiuto del Comune, a luglio, le draghe scesero nella melma dei fossi ci fu la pesca miracolosa: tre teste, una in granito e le altre in pietra serena, furono rinvenute a poca distanza l’una dall’altra. L’entusiasmo pervase città, si estese alla nazione e ne superò i confini. Erano quelle gettate nei fossi da Modigliani? “Poche parole per descrivere un episodio e delle emozioni che avrebbero richiesto lo spazio di un intero libro. Mi sono sentito vicino a Modigliani, come se quella pietra avesse il potere di metterci in un contatto fisico e annullare i settantacinque anni che separavano il gesto amaro di lui dalla gloria del nostro ritrovamento”, scriveva Dario Durbè sul libro/catalogo che avrebbe accompagnato l’esposizione nel Museo delle opere ritrovate per la trionfale domenica del 2 settembre.

Guastarono la festa i tre “bischeri” livornesi, che velocemente e senza troppi calcoli avevano preso un pezzo di granito (un pezzo di marciapiede?) e con molta fantasia, un briciolo di creatività e un poco poetico trapano elettrico Black & Decker ci avevano scolpito sopra un volto con il naso allungato. La guastarono perché appena il giorno dopo, il lunedì 3 settembre, uscì Panorama, (n.960) con le confessioni della burla da parte degli universitari che il 10 settembre la dimostrarono addirittura in prima serata tv, dichiarandosi anche sorpresi dall’estrazione contemporanea delle altre due teste.

Poi si scoprì che le altre due erano opera di un tale Angelo Froglia, portuale livornese ventinovenne e promettente artista che dichiarava di averlo fatto per motivazioni più profonde degli universitari. “Volevo semplicemente far sapere come nel mondo dell’arte l’effetto dei mass media e dei cosiddetti esperti possa portare a prendere grossissimi granchi”, dichiarava allora. Dieci anni dopo, nel 1993, il Froglia ammetteva di non aver agito da solo facendo imbrogliare l’accaduto ancor di più con una causa che parti contro Vera Durbé riaprendo il caso. Per i tempi trascorsi però dall’accaduto la causa cadde in prescrizione e nel 1997 Froglia moriva.

Angelo Froglia

Quei granchi di cui parlava Froglia furono presi, oltre che dagli organizzatori della mostra, dagli esperti incaricati dalla Soprintendenza di Pisa che eseguirono l’expertise sulle sculture ritrovate e da quasi tutta l’intellighenzia della critica d’arte. Jean Leymarie, Cesare Brandi, Enzo Carli, Giulio Carlo Argan e Carlo Ludovico Ragghianti, in compagnia di storici dell’arte come Luciano Berti, Emilio Tolaini e lo scultore Pietro Cascella, anche dopo che il mistero fu svelato, ne sostenevano con fermezza l’attribuzione a Modigliani. Fu una caduta d’immagine così profonda da lasciare ferite nel mondo della critica e dell’expertise che in qualche modo si riflettono sull’oggi.  

Ne sa qualcosa Vittorio Sgarbi, spesso al centro di polemiche professionali che si mischiano a suoi ruoli istituzionali, politici, mediatici e d’imprenditore che compra e vende opere d’arte, e che si muove come un elefante in cristalleria rendendo ancora più nebuloso il palcoscenico odierno del critico d’arte. Eppure anche lui, allora meno noto e scettico scriveva: “Giudicai, come scrissi, ‘troppo sublime e ateistica’ l’idea di una burla boccaccesca, pensai che tutto sommato le teste dovessero essere buone, ma che certamente non erano belle, e che in fine sarebbe stato assai opportuno ributtarle nel fosso. Modigliani d’altra parte è sempre stato un terreno insidioso, più di ogni altro tormentato dai falsi. Ma, in questo caso, più che del falso, l’idea della burla mi sembrava davvero troppo“.

Chi non ci cascò fu invece il commercialista e noto collezionista d’arte Carlo Pepi. “Eran farse, eran ‘un troiao e era mellio ributtalle ner fosso”. In quell’estate del 1984 non prese granchi e disse a voce alta che quelle teste ritrovate nel putrido fango erano false. Il collezionista d’arte ‘che compra e non vende’ e che vive a trenta chilometri da quei fossi in una casa museo sulle colline pisane con i Picasso sul lavandino, i Kandinski sul water, i Mirò sul letto e Fattori ovunque nella casa, lo aveva capito immediatamente.

Chi capì tutto, anche allora, fu il mondo della pubblicità. Dall’episodio ne trasse vantaggi immediati la Black & Decker che approfitto della gratuita propaganda degli universitari che con un loro trapano elettrico si presentarono in televisione per dimostrare come avevano costruito il falso Modigliani. Il manifesto (sopra a sinistra) tappezzò a lungo le città italiane mentre intanto a Livorno il Vernacoliere (sopra a destra) si fece interprete, a settembre 1984, dello spirito della Livorno scanzonata con una delle sue solite satiriche e trucide copertine a digestione lenta anche per i boccacceschi toscani.

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