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La guerra dentro: Gianni Amelio parla del suo ultimo film “Campo di Battaglia”

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“È probabile che il titolo possa sembrare fuorviante, perché Campo di battaglia fa pensare a qualcosa che si svolge tra il fronte e il nemico con combattimenti e scontri di vario genere. Magari si potrebbe pensare a “Uomini contro” di Francesco Rosi. Ma le cose stanno diversamente: Il vero “campo di battaglia” eponimo di questo film è l’ospedale militare dove arrivano ogni giorno camion pieni di feriti gravi che gli ospedali da campo non riescono a curare.”
Il regista Gianni Amelio introduce così il suo film in concorso a Venezia ventisei anni dopo l’indimenticabile Leone d’Oro per Così ridevano.

Campo di Battaglia, interpretato da Alessandro Borghi,  Gabriel Montesi,  Federica Rosellini, Giovanni Scotti e con un cameo dello stesso Amelio sotto l’uniforme di un anonimo soldato calabrese è ambientato sul finire della Prima guerra mondiale quando due ufficiali medici, amici d’infanzia lavorano nello stesso ospedale militare, dove ogni giorno arrivano dal fronte i feriti più gravi. Molti di loro però si sono procurati da soli le ferite, sono dei simulatori, che farebbero di tutto per non tornare a combattere. Qualcosa di strano accade intanto tra i malati: molti si aggravano misteriosamente. Forse c’è qualcuno che provoca di proposito delle complicazioni alle loro ferite… “Che cos’è che mi ha stimolato in questa storia?” spiega Amelio “.

Il potere in qualche modo rovesciare le carte del cosiddetto film di guerra realizzando un’opera dove la guerra si vede solo attraverso chi ritorna e viene depositato su un letto, su una branda, su un pavimento. Mi interessava esplorare il destino di queste persone in una maniera che potrebbe essere anche oggi fonte di interrogativo, ovvero cosa fa un medico di fronte a un ferito grave di guerra dal punto di vista diciamo professionale? Gli viene chiesto di curarlo bene come si deve per fare che cosa? Per rimandarlo a combattere no? Ecco questa cosa non ti sembra un po’ bizzarra un po’ quasi contro natura? Perché tu guarisci una persona e immediatamente la mandi dove può morire? 

Come ha incontrato questa storia?

Carlo Patriarca ha scritto un libro molto diverso, ma in cui è adombrata la stranezza di questo ospedale dove i malati non guarivano, ma si ammalavano ancora di più. Un elemento che mi ha sorpreso molto e che mi ha permesso di sviluppare un 

film dove l’allegoria è qualcosa che praticamente si legge come se fosse realismo solo che è un realismo tutto da interpretare. Per me in un certo senso è stato come tornare un po’ al passato.

In che senso?

Ha lo stesso sguardo sulla realtà di allora che io avevo messo in Colpire al cuore proprio in virtù del paradosso. Io penso rivolgermi anche alla realtà di oggi e sono uno che si chiede come si fa a impedire la guerra? Saremo sempre in guerra, in combattimento? Avremo sempre bisogno di un fronte nemico? Com’è possibile questa cosa, come è accaduta? Qual è il modo perché ci sia la pace sia in Ucraina che a Gaza? Perché la Storia si deve ripetere come massacro di gente che fra l’altro non c’entra con la guerra, perché io vedo, leggo, sento morire soprattutto civili? In qualche modo erano anche civili i poveri ragazzi reclutati nel Sud che hanno fatto la prima guerra mondiale e hanno affrontato un viaggio come se fossero andati in un altro continente, dalla Sicilia al Friuli in un’epoca in cui i dialetti costituivano una barriera importante per capirsi. 

Un altro film diverso da tutti gli altri…

Io non sono un autore all’italiana cioè io non seguo l’autorialità di un Antonioni odi un Fellini. Mi colloco in una direzione che in qualche modo rispetta la mia persona e la mia personalità. Io ho bisogno di raccontare delle storie, però non sono legato visceralmente al mio ego. In fondo i cosiddetti grandi e piccoli autori parlano di loro stessi, si mettono in gioco autobiograficamente. Io invece agisco solo sul traslato cioè io per dire mi riconosco in alcuni personaggi dei film che faccio ma non mi riconosco per niente in altri che non hanno nulla a che vedere con me.

Beh, nella sua lunga carriera ha saputo anche lavorare su committenza dando vita lo stesso ad opere d’autore anticipando i tempi…

Io sono nato anche con il desiderio di scommettere su una professione che era la più lontana possibile quando la guardavo da adolescente. Sono diventato regista non in maniera intellettuale, ma facendo per esempio l’aiuto, l’assistente e venendo a contatto con registi lontanissimi da me però con cui accettavo di collaborare. Il lavoro che facevo probabilmente mi ha anche formato l’attitudine nei confronti di quello che è un mestiere prima di essere un’espressione d’arte: non ho mai sentito vicino o dentro di me l’essenza dell’artista. Mi sembra una cosa talmente “ridicola”… Solo in Italia il regista deve essere un autore, un artista e tante altre cose… Io sono una persona che si sente suo agio solo con un mezzo che gli permette di raccontare e di esprimersi. Questo è il mio campo di battaglia…

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