Di Israele parlano in tanti, troppi, , anche quelli del sentito dire. Parlano e pontificano gli ultras, quelli che tutto giustificano e nulla (o poco) sanno. Quelli che in Israele, e in Palestina, non hanno mai messo piede. Quelli del dito indice accusatorio sempre alzato, che si spacciano per amici d’Israele quando, con il loro manicheismo deleterio, non fanno altro che costruire un vuoto di empatia nei confronti d’Israele e del suo popolo. Enrico Catassi non è tra questi.
Lo ammetto: sono di parte. Ma della parte giusta. Conosco Enrico da una vita e mi onoro di esserne amico. Ma in questo caso l’amicizia non c’entra. C’entra averlo conosciuto e apprezzato nei tanti anni che Enrico ha trascorso in Israele, in Palestina, per coordinare e realizzare progetti di cooperazione per la Regione Toscana. Ecco, un altro pregio di Entico: lui la solidarietà l’ha praticata e non “predicata”. E lo ha fatto, nel libro questo percorso esistenziale si fonde pienamente con riflessioni storico-politiche, cogliendo sempre la specificità di un conflitto la cui essenza “dostoevskiana”, per dirla con il grande scrittore israeliano, purtroppo scomparso, Amos Oz, sta nel fatto che a scontrarsi non è il Bene contro il Male, ma due aspirazioni, due diritti, egualmente fondati. Per questo +972 ULTIMA CHIAMATA Israele tra guerra eterna e sogno di pace (the dot company edizioni,), l’ultimo libro di Enrico Catassi, è un libro prezioso, da leggere tutto di un fiato.
Prezioso, perché vero. Perché partecipe di un dramma che Enrico ha toccato con mano, che ha vissuto in prima persona, anche in momenti drammatici nell’eterno conflitto in Terrasanta. Racconta, Enrico, con una prosa che coinvolge, che fa partecipe il lettore. E lo fa sentendosi parte, non solo narratore, di quella tragedia, del dolore e della speranza che l’innervano. Enrico è un “partigiano”, nel senso più alto e nobile del termine. Parteggia per la pace. Quella vera. Che è altra cosa dall’assenza di guerra, dal mantenimento di uno status quo fragile perché iniquo, iniquo perché fotografa la realtà sul campo e la eternizza. Una realtà dove esiste un occupante e un occupato. Una pace senza giustizia è una non pace.
Enrico è per la pace, ma non è un generico “pacifista”. Avendo vissuto i momenti della speranza (quelli legati agli Accordi di Oslo-Washington del settembre ’93) e quelli della morte quotidiana (l’assassino di Rabin, l’Intifada dei kamikaze, l’assedio di Gaza, la colonizzazione senza tregua della Cisgiordania), Enrico sa bene che se un giorno la pace ci sarà, sarà la pace della “stanchezza” e non dell’amore tra i due popoli. Una stanchezza salutare, di chi non ce la fa più a consumare la propria esistenza nel dolore e nell’attesa del peggio. Enrico è “pro”, mai “contro”. È per la coesistenza tra due popoli e due Stati, e non contro uno di essi. La pace di chi si è combattuto per una vita e ha finito per comprendere che la sicurezza d’Israele, la sua stessa esistenza, non può fondarsi sulla forza del suo esercito. Se ci sarà, sarà la pace di Yitzhak Rabin. Se ci sarà, non sarà certo la pace di Hamas che sull’esistenza di un conflitto eterno, che non ammette compromessi ma, al massimo, contempla una “hudna” (tregua) fonda il suo potere, la sua presa interna. Enrico lo racconta bene, e fa emergere una verità storica da cui non si può prescindere: gli opposti si sorreggono l’uno con l’altro. I falchi, delle due parti, volano in coppia. Sinwar ha bisogno di Netanyahu, e viceversa. Il libro dà conto di un “grande vuoto”: il vuoto di leadership. Sia in campo israeliano sia in quello palestinese. Leadership coraggiose, pragmaticamente visionarie, lungimiranti, capaci di andare anche controcorrente.
Leadership che sappiano declinare al meglio parole fondamentali nel vocabolario di una pace giusta, duratura, tra pari: parole quali “dialogo”, “compromesso”. Sì, compromesso. Inteso non come mediazione al ribasso, o mera ratifica dei rapporti di forza sul campo (di battaglia). No, non è questo il “compromesso” che auspica Catassi. È qualcosa di altro e di più. È il riconoscimento reciproco delle ragioni dell’altro da sé. È la separazione come passaggio necessario per immaginare, e realizzare, un “nuovo inizio”. Il libro di Enrico è il libro di un “pragmatico utopista”. Altro da un “sognatore”. In Terrasanta, i sogni si sono spesso rivelati l’anticamera di immani tragedie. Il sogno della Grande Israele. Il sogno della Palestina “dal fiume al mare”. La pace, il libro lo argomenta con partecipazione e puntigliosità documentale, è l’antitesi dei sogni di grandezza. La pace è accettazione di confini, non solo territoriali ma culturali, identitari. La pace è coscienza del limite.
La pace, altro punto-chiave che il libro evidenzia, è incontro e costruzione dal basso e mai imposizione dall’alto, tanto meno dall’esterno. Qui sorregge l’esperienza che Catassi ha maturato negli anni della cooperazione. Fatta di progetti condivisi con ong locali, israeliane e palestinesi, di valorizzazione di competenze “autoctone”. Esperienze di vita ricche di umanità e di politica, dove idealità e concretezza provano, e spesso ci riescono, a marciare insieme. Cooperazione come conoscenza. Conoscenza come antidoto al “virus” della demonizzazione e della disumanizzazione dell’altro da sé. Una disumanizzazione che sta dentro la tragedia in atto da undici mesi a Gaza. “Ultima chiamata”, avverte l’autore. Per Israele, certo, ma anche per i Palestinesi. In politica, soprattutto in teatri di conflitto, il fattore tempo è decisivo.
E il tempo non lavora per la pace in Terrasanta. In questo, il libro di Enrico è anche un lucido, argomentato, appassionato grido di allarme. E, al tempo stesso, è un possente j’accuse rivolto contro una comunità internazionale inerme se non complice, che ripete stancamente il mantra dei “due Stati”, mentre la destra messianica e ultranazionalista israeliana ha operato, con la “giudeizzazione” della West Bank, perché quell’opzione venisse svuotata di ogni praticabilità. Enrico è “amico d’Israele”. Un vero amico. E come tale non giustifica ne copre le scelte più estreme, quelle che finiranno per ritorcersi contro gli stessi israeliani. Enrico non critica Israele per quel che è, ma per le politiche che adotta. Così come non giustifica la leadership palestinese, sia quella di Hamas che la gerontocrazia dell’Anp, solo perché rappresenterebbe un popolo oppresso, sotto occupazione.
+972 ULTIMA CHIAMATA
Israele tra guerra eterna e sogno di pace, è un libro che dà speranza senza minimizzare dolore, disperazione, odio, che segnano il presente dei due popoli. La speranza è nei 500mila che sabato scorso hanno riempito la piazza centrale di Tel Aviv per manifestare contro un governo che sta sacrificando la vita degli ostaggi ancora in cattività a Gaza, in nome di una impossibile “vittoria totale” contro Hamas. Israele, è il messaggio del libro, può trovare dentro di sé le ragioni del dialogo e del compromesso, con la consapevolezza che il proprio futuro è indissolubilmente legato a quello dei Palestinesi. E’ l’Israele dell’”ultima chiamata”.
Buona lettura.
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