di Gabriele Bisconti
È stato il musicista che ha mutato completamente e irreversibilmente l’approccio alla chitarra elettrica, per molto tempo lo strumento principe e incontrastato del rock (almeno fino all’avvento del sintetizzatore) e, comunque, quello che più di tutti, fin dagli inizi, ha dato a questo genere quel marchio adrenalinico e un po’ selvaggio, quel “quid” che lo caratterizza da ogni altra espressione musicale.
Con il suo strumento, Hendrix ha compiuto una rivoluzione copernicana accostabile, forse, solo alle innovazioni apportate al modo di suonare la sei corde da Charlie Christian, Django Reinhardt, Chuck Berry e, al limite, Robert Johnson. Con lui, il feedback diventò un’arte, non più un “fastidioso difetto”.
Indimenticabili sono le sue esibizioni al festival di Monterey del 1967 in cui concluse la performance dando fuoco sul palco alla sua chitarra e alla chiusura del festival di Woodstock del 1969 durante la quale effettuò una originale reinterpretazione dell’inno nazionale statunitense.
La distorsione, spinta ai massimi limiti, divenne potenza e delicatezza al contempo, le linee melodiche e armoniche della chitarra elettrica si intrecciarono e unirono con naturalezza e perfezione come mai in precedenza. La valenza dell’atto musicale assunse con lui un nuovo e prorompente significato.
Il nativo di Seattle è stato un ciclone che ha attraversato la scena del rock, proprio perché quest’ultimo è il genere musicale dove più che in ogni altro contano il suono e l’immagine (la forma, quindi, oltre che i contenuti), come si evidenzierà sempre di più col passare degli anni e con l’avvento dell’elettronica e l’evoluzione dell’iconografia rock.
Hendrix è stato allo stesso tempo un eccellente chitarrista ritmico e un grande solista, nonché precursore di tanti “guitar hero” della storia del rock.
È passato molto tempo dalla sua scomparsa, ma una cosa è certa: l’eco della sua Fender Stratocaster continuerà a risuonare in tutta la musica per l’eternità.
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