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La debolezza della legalità in Italia: un problema radicato nella cultura civile

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di Antonio Salvati

A Norberto Bobbio la società italiana appariva «putrefatta e moralmente fiacca». La società intesa tutta intera, non soltanto il mondo politico o il governo: «tra chi sta dentro il palazzo e chi sta fuori c’è una corrispondenza». Il grande filosofo politico e del diritto solitamente ritraeva in maniera impietosa il sistema politico italiano. Infatti, Bobbio, nelle sue denunce, manifestava un forte un pessimismo che ha segnato il pensiero civile nazionale più consapevole dei vizi e dei problemi culturali del paese. Con il suo Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, nel 1824, Giacomo Leopardi sostenne che: «lo spirito pubblico in Italia è tale, che, salvo il prescritto dalle leggi e ordinanze de’ principi, lascia a ciascuno quasi intera libertà di condursi in tutto il resto come gli aggrada, senza che il pubblico se ne impacci […]. L’indifferenza che ne risulta è perfetta, radicatissima, costantissima; l’inattività, se si può così dire, efficacissima; la noncuranza effettivissima». Non si riferiva ai partiti che non esistevano, né alla violazione delle leggi. Lamentava invece la mancanza di uno spirito pubblico capace di orientare i comportamenti individuali verso finalità sociali, dalla quale nasceva una sfrontata sensazione di legittimità di ogni comportamento che non fosse espressamente vietato da leggi e ordinanze. Tanta acqua è passata sotto i ponti da quando Leopardi espresse queste convinzioni: dalla prima metà dell’Ottocento ai nostri giorni il nostro Paese ha conosciuto profonde trasformazioni passando dalla nascita dell’Italia unita agli inizi della democrazia, dal fascismo alla Resistenza e alla repubblica. Non solo: le guerre e la pace, gli sconvolgimenti sociali, le grandi migrazioni, l’alfabetizzazione di massa, l’industrializzazione, i diritti sociali, il benessere, la prima globalizzazione. Malgrado siano cambiate anche le strutture del potere, l’Italia «porta ancora dentro di sé, come in un insuperabile DNA, un tratto profondo di antropologia civile che lo condiziona e umilia: il fastidio, il rigetto della legalità». Sono le parole di Nando Della Chiesa che sulla legalità ha pubblicato un interessante volume, La legalità è un sentimento. Manuale controcorrente di educazione civica (Bompiani 2023 pp. 252 € 18,05). Si tratta di una questione che, pur avendo portata e valore universale, riguarda in profondità la natura della società italiana. Il resto, spiega Dalla Chiesa, «le migrazioni, l’industrializzazione, il fascismo, il primato dei partiti, è passato, si è dimostrato quasi sovrastruttura. Mentre la “legalità debole” si è dimostrata la cifra morale permanente, la vera sostanza e linfa della storia che scorre nella vita del paese».

Evidentemente l’educazione alla legalità non è fatta solo o prevalentemente di prescrizione di buone regole e nemmeno di insegnamento della Costituzione, come spesso si ritiene. Occorre qualcosa di molto più profondo. Essa è fatta di costruzione di uno spirito pubblico, ossia di ciò che secondo Alexis de Tocqueville, grande studioso francese della democrazia americana, garantiva negli Stati Uniti di metà Ottocento il rispetto delle leggi. È fatta – precisa Dalla Chiesa – «di quell’insieme di fedi, di credenze e di valori che origina una Costituzione, come l’epopea della Resistenza antinazista e antifascista generò in Italia quello della Costituzione italiana. Lo spirito di una Costituzione, così come lo spirito delle leggi di Montesquieu, non si trova cioè nelle singole parole della norma scritta. Ma soffia dentro di loro, dà loro un senso. Non diventa legge, ovvero l’unica cosa che secondo Leopardi il popolo italiano riteneva di dovere osservare, ma vola al di sopra della legge. È, paradossalmente, di fronte alle contorsioni del diritto e alle sue avventure interpretative, l’unica cosa davvero inviolabile e immodificabile».

La legalità è un bene prezioso, necessario. Richiede la costruzione di un clima culturale, «la presenza di un’attenzione etica in ogni materia, dalla storia alle scienze (e in università: dalle materie giuridiche a quelle mediche e urbanistiche), un rapporto sistematico con la realtà esterna, l’esempio quotidiano dei singoli docenti e delle amministrazioni, la costruzione paziente di una scala di valori». In altri termini, abbiamo bisogno di un processo globale, o una serie di processi per definire «“un modo di vivere” che si imponga come desiderabile e “prestigioso” (e dunque gratificante) all’interno del proprio raggruppamento sociale. Naturalmente il discorso potrebbe essere allargato al di fuori della scuola e dell’università». Serve investire i mezzi di comunicazione di massa come la politica e via via la molteplicità dei soggetti sociali, economici e culturali.

Il senso della legalità non cresce attraverso una pioggia di arresti spiccati da una procura della Repubblica, dalla stagione di mani pulite, né da un discorso di apertura dell’anno giudiziario, e nemmeno dalla celebre intervista sulla questione morale di Enrico Berlinguer rilasciata a Eugenio Scalfari nel 1981. La legalità cresce attraverso la letteratura. Ebbene sì. Perché letteratura e poesia arrivano nell’apprendimento del mondo e nell’immaginario adolescenziale ben prima della giustizia e della politica. Entrano «assai prima di loro nella contesa per insegnare i “modi di vivere” e di “stare al mondo”. E, specie se accompagnate dalla parola di un adulto – una maestra come un genitore –, sono in grado di orientare i sentimenti, consegnando dilemmi, fissando per sempre atmosfere ed emozioni. E anche oltre l’adolescenza suggeriscono e radicano problemi, generano inquietudini là dove vi sono certezze. Tra letteratura e politica, insomma, non c’è davvero partita». Si pensi solo, con riferimento all’Olocausto, alla straordinaria importanza giocata da Se questo è un uomo o dal Diario di Anne Frank. La questione è riconoscere alla letteratura questa funzione, presidiarla non solo come esteti o letterati ma, almeno in parte, proprio come educatori. Si potrebbe dire che la letteratura apre verso la legalità un sentiero vasto. Si pensi a Manzoni e ai suoi insegnamenti in relazione ai grandi temi del potere e della giustizia. O agli scritti civili e di antropologia culturale di Leopardi. Oppure ai temi della diseguaglianza sociale in Verga. Dalla Chiesa utilizza le considerazioni di autori contemporanei che aiutano a confrontarci con la società italiana del secondo dopoguerra come Primo Levi, Pier Paolo Pasolini e Corrado Stajano. Oltre a Italo Calvino, Leonardo Sciascia e a Erri De Luca. Ma avrebbero potuto entrare in questa riflessione anche Ignazio Silone, Carlo Levi e Vincenzo Consolo.

Ovviamente in questo volume Dalla Chiesa concentra la sua attenzione sul rapporto tra legalità e fenomeno mafioso perché la mafia, come ogni tipo di potere criminale, «è in fondo la violazione più radicale e assoluta della legalità, anche se tende a fondare la propria legittimazione ideologica sull’“amore” per la famiglia, per gli amici, per la propria terra». Nessuna Costituzione degli stati può accettarla. Ma dove essa controlla il territorio comanda (e spesso comanda), «rappresenta al tempo stesso – tutti insieme – la legalità di fatto, l’“ordine delle cose” di Bourdieu, il “potere normativo della fattualità” di Kelsen, l’“ovvietà culturale” di Bobbio, il “senso comune” di Gramsci, i “costumi” di Leopardi, il “potere” di Weber che costringe gli individui ad agire “contro la loro volontà”». Non a caso le mafie (e la corruzione) tendono a costituire un loro ordine specifico dotato di propri linguaggi, pratiche, mentalità, simboli. Praticamente un ordine separato da ma comunicante con quello legittimo. Come non rievocare il vivido ritratto che della Sicilia fece Leopoldo Franchetti negli anni settanta dell’Ottocento quando rileva la distanza tra la legge liberale introdotta nell’isola dallo stato unitario “piemontese” e la legge prolungatavi da una controsocietà che in quello stesso stato è entrata con la filosofia del Gattopardo: cambiare tutto perché nulla cambiasse. Ecco quindi perché educare alla legalità passa per una tenace resistenza culturale, anche quando potrebbe apparire niente più che trasmissione conforme dei valori di fondo in cui ogni membro della società è chiamato a riconoscersi sin dall’infanzia.

Ogni società è fatta anche del rapporto tra cittadini e istituzioni, il che è abbastanza condiviso. Ma è definita anche del linguaggio che usa. E di questo vi è poca consapevolezza. I coniugi Berger, nel loro limpido manuale di sociologia della vita quotidiana, uscito negli anni settanta, sostennero fondatamente che «il linguaggio è molto probabilmente la istituzione fondamentale della società, oltre a essere la prima istituzione che l’individuo incontra nel corso della sua vita». Milan Kundera va ancora oltre: la lingua plasma la cultura e, attraverso questa, tutela l’identità di un popolo anche dai marosi della politica internazionale. Soprattutto quando il linguaggio si traduce in dialogo. Non a caso, sessant’anni fa, papa Paolo VI, nell’agosto 1964, lanciava l’enciclica Ecclesiam Suam sul dialogo: non più monologo della Chiesa, ma dialogo. Scriveva: «La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola: la Chiesa si fa messaggio: la Chiesa si fa colloquio”. La vita cristiana è un colloquio con tutti». La comunicazione del Vangelo avviene attraverso un preciso linguaggio, parlando: non si può separare per Paolo VI «la propria salvezza dalla ricerca di quella altrui, di chi si studia continuamente di mettere il messaggio, di cui è depositario, nella circolazione dell’umano discorso». Il colloquio stabilisce legami, avvicina le persone. Il dialogo è necessario in un tempo di conflitti anche se molti lo rifiutano. Il dialogo e l’amicizia sono il sale del rapporto tra gli uomini. Sono la via della pace e la prevenzione della guerra.

In questo senso educare il proprio linguaggio conduce a guardare fino in fondo la realtà. O educa a rappresentarla. O, meglio, educare a immaginarla diversa.

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