di Lorenzo Lazzeri
A Berlino, una delle città simbolo della cultura europea, la scorsa settimana è stato annunciato l’arrivo di un nuovo strumento tecnologico che promette di ridisegnare il volto dell’editoria, forse trasformandolo in una maschera di se stessa.
Si tratta di Demandsens, un software dotato di una particolare Intelligenza Artificiale che, nel giro di pochi secondi, potrà predire con un’efficienza impensabile, quasi matematica, il potenziale successo di un’opera letteraria. La sua ascesa è inesorabile, non tanto per i suoi ragionevoli vantaggi in efficienza e commerciali, quanto per il fatto che risponde alle pulsioni di un mercato che esige certezze, previsioni e dati.
Nell’editoria, come altrove, il fattore rischio viene ormai vissuto come un difetto del sistema, un errore da correggere e così, nell’illusoria sicurezza del calcolo algoritmico, la scommessa sul nuovo, sul differente, perde terreno, lasciando al commercio della cultura il compito di scegliere cosa leggere, cosa scoprire, cosa pensare, instradando il pensiero dei lettori.
Nella tradizione intellettuale che ancora persiste come un’eco sommessa in certi ambienti, la pubblicazione di un’opera letteraria era intesa come un atto di fiducia verso la capacità dell’autore di dialogare con un lettore immaginato, capace di accogliere, comprendere e persino reinterpretare ciò che andava oltre il dato immediato.
Un lettore di cui Umberto Eco, indagatore della semiotica, parla con la figura del “lettore modello,” ovvero quell’interlocutore ideale a cui lo scrittore affida le sue sfumature, le sue domande nascoste, con cui sperimenta nuove vie di senso e che accompagna l’autore in una co-creazione del significato.
Tuttavia, oggi, l’idea stessa di lettore rischia di essere annullata dalla necessità di corrispondere a una previsione statistica. Il lettore non è più interlocutore, ma un profilo commerciale, una silhouette ricavata dai parametri di vendita.
La nuova Intelligenza Artificiale in campo editoriale, che dovrebbe rappresentare un ausilio, assume invece le fattezze di un’entità silente, neutra solo in apparenza, che distorce il corso della creatività trasformandolo in una procedura burocratica, statistica e quasi matematica.
Essa non può che rigenerare le tendenze esistenti, accentuare il gusto dominante, amplificare ciò che già conosciamo in una cassa di risonanza come accade oggi nei “social algoritmici” e così, nella sua pretesa di infallibilità, Demandsens non tiene conto delle necessità dell’animo umano, né della realtà sfuggente dell’immaginazione, né della pericolosa insoddisfazione del lettore che cerca in un libro quel richiamo dell’ignoto, quella scintilla che sfugge alla pura razionalità e sfida il conformismo.
Le dinamiche economiche, d’altro canto, già da tempo soffocano il margine di rischio che aveva permesso, in passato, l’ascesa di opere eccentriche, persino provocatorie, opere che nessun algoritmo avrebbe mai approvato. La concorrenza incessante, il calo progressivo delle vendite e l’espansione di contenuti digitali, facilmente fruibili e volatili, spingono l’editoria a preferire il consolidato, il prevedibile, soffocando la creatività in un’ossessione per il profitto. Siamo di fronte a un meccanismo che ormai privilegia il consumo rapido e disimpegnato e che considera ogni deviazione dal modello come un’anomalia, un’inaccettabile disfunzione.
Dall’altra parte, gli editori, privati della libertà di assumere rischi, scelgono i titoli con la prudenza di chi non può permettersi passi falsi. Non si tratta più di riconoscere un valore intrinseco nell’opera, ma di sondare il mercato in anticipo, di rassicurarsi che l’investimento sarà ampiamente ricompensato; un orientamento che smorza ogni possibilità di scoprire opere che sfuggono alle griglie commerciali, opere destinate a dialogare con il tempo, opere che riflettono il dramma, la complessità e le sfumature dell’esistenza.
È un contesto, questo, che non conosce più lo spirito pionieristico, che non rischia né scommette sulla qualità, ma si appiattisce sull’immediatezza dell’effetto, ed è proprio qui che si consuma l’agonia della letteratura come forma d’arte libera, come dialogo esistenziale, come veicolo di un’introspezione condivisa. La letteratura, in questa prospettiva, non è più quel territorio selvaggio, quell’avventura nel linguaggio che richiede il coraggio di sconfinare; al contrario, diventa un bene di consumo, un prodotto pensato per soddisfare una domanda effimera, superficiale, calcolata.
Non è un caso che alla Buchmesse di Francoforte, una delle voci più autorevoli dell’editoria tedesca, Karin Schmidt-Friderichs, abbia definito l’intelligenza artificiale il “più grande furto di dati della storia”, e che Jürgen Boos, direttore della fiera, abbia espresso il timore che l’AI, nel suo riassemblare e ricombinare dati, manchi di vera originalità, un concetto che svela un’inquietudine profonda: è possibile ridurre la creazione a un calcolo di probabilità?
E cosa resta, allora, della letteratura, se l’autentica vocazione creativa, quella che sfugge alla ripetizione, è costretta a piegarsi alle logiche del mercato?
Se la previsione commerciale diventa la pietra di paragone per ogni nuova pubblicazione, se l’editore smette di assumere rischi, chi ci difenderà dalla monotonia?
L'articolo Intelligenza artificiale e editoria: la Cultura ridotta a prodotto di consumo proviene da Globalist.it.