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Vorrei una voce per volare dal carcere al teatro

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di Alessia de Antoniis

Dal 12 al 14 novembre la Sala Umberto di Roma ospita Vorrei una voce di e con Tindaro Granata.

Ricordo la prima volta che vidi Vorrei una voce. Era al festival Narni Città Teatro. Sul palco, pantaloni e maglia, Tindaro Granata cantava in playback. Continuavo a pensare: ora inizia a cantare lui. Niente. Non capivo. Perché in playback? Che spettacolo è? Sul palco, alle sue spalle, cinque abiti appesi. Abiti femminili. Abiti rigorosamente di paillettes, luminosi, femminili. (i costumi sono di Aurora Damanti). Solo un palco nero scaldato da luci che, a turno, abbracciano un abito, abbracciano Tindaro. Esco da quello spettacolo emozionata, commossa, turbata.

Lo rivedo al Ginesio Fest e trovo che lo spettacolo sia cresciuto, sia ancora più potente, sia come una voce che si è scaldata, i cui timbri si sono aperti, le note fatte più intense, vibranti. Come una voce che è diventa ancor di più un’esplosione di vigore e sentimento, risuonando piena e avvolgente.

E trovo conferma della sensazione che avevo avuto la prima volta: il fulcro del lavoro di Tindaro Granata non sta nel canto dell’attore, ma nelle profonde suggestioni in cui trasporta chi ascolta. Un mondo di emozioni travolgenti dove la musica di Mina è il filo che cuce insieme emozioni che a parole non si riesce a esprimere; dove i testi scritti per Mina parlano di amore perduto, non corrisposto, tormentato, raccontando il dolore e le fragilità delle relazioni umane. E Vorrei una voce diventa quasi una preghiera, di chi una voce non l’ha, non l’ha più o non è mai stata capace di usarla per esprimere la propria vulnerabilità.

Vorrei una voce nasce da un’esperienza reale, dal lungo percorso teatrale che l’autore e attore siciliano ha realizzato al teatro Piccolo Shakespeare all’interno della Casa Circondariale di Messina con le detenute di alta sicurezza, nell’ambito del progetto Il Teatro per Sognare. Il fulcro della drammaturgia è il sogno: perdere la capacità di sognare significa far morire una parte di sé. Vorrei una voce è dedicato a coloro i quali hanno perso la capacità di farlo”. Così dalle note di regia.

“Ero un giovane uomo, lavoravo, avevo una casa, una macchina e soprattutto persone che mi amavano, ma avevo smesso di provare gioia per quello che facevo, non credevo più in me stesso e in niente – racconta Tindaro Granata – Un giorno mi sono svegliato e non mi sono sentito più felice, né di fare il mio lavoro né di progettare qualsiasi altra cosa. Quando mi arrivò la telefonata di Daniela Ursino, direttore artistico del teatro Piccolo Shakespeare, con la proposta di fare un progetto teatrale con le detenute ‘per farle rivivere, sognare, ritrovando una femminilità perduta’, capii, dopo averle incontrate, che erano come me, o forse io ero come loro: non sognavamo più”.

Cosa decidesti di portare in scena con le detenute?

L’ultimo concerto live di Mina, tenutosi alla Bussola il 23 agosto 1978. L’idea era quella di entrare nei propri ricordi, in un proprio spazio, dove tutto sarebbe stato possibile, recuperando una femminilità annullata, la libertà di espressione della propria anima e del proprio corpo, in un luogo che, per forza di cose, tende quotidianamente ad annullare tutto questo. Ognuna di loro, attraverso il canto in playback, doveva trasmettere la forza e la potenza della propria storia per liberarsi da pensieri, angosce, fallimenti di una vita.

Le ragazze sono andate in scena in carcere, mentre fuori da lì sei tu a portare te e loro in scena…

Non voglio e non posso portare in scena le mie ragazze del teatro nel carcere di Messina, perché quello che abbiamo fatto dentro quel luogo di libertà, che sta dentro un carcere, è giusto che rimanga con loro e per loro. In Vorrei una voce in scena ci sono solo io. Delle ragazze mi porto i loro occhi, i gesti, le loro lacrime e i sorrisi.

Qual è stata la reazione delle persone alle quali l’hai raccontato?

La reazione iniziale è stata di stupore e incredulità. Le persone mi dicevano: “Ma non sei un cantante, come pensi di farlo?” Io rispondevo: “Lo farò in playback”. Mi sentivo determinato, anche se tutti pensavano che fosse una follia. Perfino le ragazze con cui lavoravo nel carcere all’inizio non ci credevano davvero. Solo Daniela Orsino, la direttrice artistica, ha capito subito quanto potesse essere un’idea meravigliosa. Era convinta che fosse possibile e mi ha dato tutto il supporto per farlo.

Un’emozione particolare che hai provato sul palco?

Quando l’ho fatto l’ultima volta al Cocoricò di Riccione. Ho cantato queste canzoni tante volte, fin da ragazzino.E orami ero abituato anche a sentirle sul palco. Ma due settimane fa, al Cocoricò, la voce di Mina arrivava con una potenza incredibile, grazie a delle casse gigantesche della discoteca. Sentire la sua voce così forte è stata un’esperienza unica, qualcosa di magico. La sua voce ha una forza che ti trasporta e questo è l’effetto che voglio ottenere con lo spettacolo: anche chi non ama particolarmente Mina non può fare a meno di farsi coinvolgere. È un viaggio che nasce dalla mia ammirazione per lei.

Mina conduce una vita molto riservata. Perché Massimiliano Pani vi ha notato? Immagino che ci siano stati tantissimi spettacoli che hanno usato le musiche di Mina…

Massimiliano Pani è un uomo molto curioso e ha voluto capire cosa fosse questo mio progetto in carcere. Lui è molto attento a tutto ciò che riguarda sua madre. È una persona corretta, di grande cuore, e mi ha accolto con grande gentilezza. Ma i nostri rapporti restano strettamente privati. E sono ricordi che conserverò sempre gelosamente. Una cosa lo ha colpito: quando gli ho detto che questo progetto è mio, non è lo spettacolo di Mina. Sono felice che lui abbia compreso che il mio è un gesto di amore per sua madre, non un tentativo di sfruttare la sua immagine.

Come hanno reagito le detenute alla notizia che Massimiliano Pani era interessato a loro?

Erano emozionate e felicissime. Massimiliano è venuto a Messina e ha conosciuto le ragazze. Per loro è stato un riconoscimento importante; alcune hanno scritto lettere che speravano arrivassero a Mina. Non abbiamo nessuna certezza, ma tutte noi speriamo che Massimiliano le abbia consegnate a sua madre e che Mina le abbia lette. Per loro, sapere di contare per qualcuno è stato un enorme incoraggiamento.

Come è nato il tuo rapporto con il carcere di Messina?

Nel 2017 ero a Milano con Antropolaroid, in dialetto siciliano. Daniela Orsino mi propose di portarlo nel teatro del carcere. È stata una bellissima esperienza: ho recitato davanti agli uomini e, alla fine dello spettacolo, alcuni di loro mi hanno chiesto se potevamo fare teatro insieme. Dopo due anni è arrivata la proposta di lavorare anche con le donne. È stata una delle esperienze più intense della mia vita. In carcere non ho frequentato chi ha affrontato un viaggio per deserti e il Mediterraneo, che scappavano da guerra e morte, senza casa distrutta dalle bombe. Quella è una sofferenza che immagini, ma che vedi in televisione. Io ho incontrato persone come noi, che parlano la nostra lingua, che ti raccontano del bar dove vai anche tu. È stato un confronto potente e particolare, dove non puoi nasconderti dietro alla falsa immagine del diverso, dello straniero. In alta sicurezza ho lavorato con persone che sono parte integrante nella nostra società.

I dati parlano di una drastica riduzione delle recidive nei detenuti che fanno teatro in carcere. Pensi che il teatro cambi davvero la vita dei detenuti?

Sì, ma il cambiamento non è automatico. Il teatro in carcere cambia prima di tutto l’aspetto fisico: iniziano tutti con spalle incassate, sopracciglia aggrottate e un atteggiamento chiuso. Dopo mesi di lavoro, li vedi trasformati: assumono una postura aperta, quasi sembrano più alti. C’è anche un cambiamento interiore, che si riflette nel modo in cui si vedono e si relazionano con le loro famiglie. Per loro fare teatro è una forma di riscatto, un modo per dimostrare ai familiari che stanno cambiando.

Il punto è che per molti di loro stare in carcere è una conseguenza naturale della loro condotta; non si pongono il problema “sono in carcere e devo essere migliore”. A loro non interessa. Quindi dove sta il valore aggiunto? Fare teatro serve ai detenuti, ma ancor di più alle loro famiglie, alle quali dimostrano che lì dentro sono altre persone. Quando i figli vedono un padre o una madre sul palco, si portano a casa un ricordo positivo. È un seme che metti in un ambiente non sano.

E una volta fuori?

Il grande problema del carcere italiano è che i detenuti, quando escono, verranno sempre trattati da carcerati: sarà faticoso trovare lavoro e se lo trovano non è detto che riescano a tenerlo. Vengono assunti per gli sgravi fiscali che il Governo dà agli imprenditori, ma, scaduti i due anni di agevolazioni, li cacciano. Non ci sono veri progetti di reinserimento. Quando escono, tornano negli stessi ambienti e, in mancanza di altro, per sopravvivere e per mantenere le famiglie, torneranno a fare quello che facevano.

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