di Antonio Salvati
L’epilogo drammatico della vita di Giacomo Matteotti ha per molti versi oscurato in buona parte – almeno per il grande pubblico – il suo impegno e pensiero politico. C’è molta bibliografia relativa alla sua terribile uccisione, in tanti conosciamo le dinamiche del suo rapimento e del suo assassinio del 10 giugno 1924 da parte di una squadra fascista dopo aver denunciato in un discorso alla Camera le illegalità commesse dal regime di Mussolini. Le centinaia di piazze in Italia a lui dedicate attestano il riconoscimento del suo martirio. Molto meno – almeno per il grande pubblico – si conosce la sua intera esistenza, il suo pensiero politico e in particolar modo il suo intransigentismo morale.
Futura Editrice ha ripubblicato il bellissimo ritratto che Piero Gobetti (Matteotti, Futura Editrice, Roma 2024, pp. 72, € 8,00) scrisse all’indomani del suo omicidio per i tipi della sua casa editrice, la Piero Gobetti Editore. Due uomini accumunati dall’essere stati entrambi oppositori e vittime della dittatura. Piero Gobetti, morì nel 1926 in seguito a un pestaggio squadrista.
Dall’infanzia tormentata nel Polesine all’adesione al socialismo, il volume ricostruisce la vicenda umana e politica di Matteotti. Emerge il profilo di un «guardiano della rettitudine politica» e quello di un antifascista intransigente.
E, in particolar modo, quello di un convinto pacifista. Per il suo impegno di coerente pacifista, fu condannato, durante la prima guerra mondiale. per sedizione e disfattismo per la sua opposizione alla guerra. Non a caso, Gobetti inizia il suo breve ed acuto ritratto ricordando la coerenza di Matteotti già dalla sua opposizione alla guerra europea del 1914 e prima all’impresa libica di Giolitti. Nel 1915 in un comizio a Rovigo Gobetti ricorda che Matteotti «parlava contro la violenza con un linguaggio da cristiano: nella folla fremevano fascisticamente spiriti di dannunzianismo e di piccolo cinismo machiavellico. Difendere la neutralità poteva essere la difesa di un errore: Matteotti parlò contro la guerra». A guerra iniziata ripetè il suo discorso, quando non c’era più pacifista che parlasse. Per questo Gobetti invita a «mettere a confronto l’esempio di Matteotti pacifista con la condotta degli uomini tipici del pacifismo italiano, pavidi e servili per non essere presi di mira, nascosti e silenziosi nei Comandi o negli impieghi, emuli dei nazionalisti nel rifugiarsi nei bassi servizi. Matteotti non disertava, non si nascondeva, accettava la logica del suo «sovversivismo», le conseguenze dell’eresia e dell’impopolarità: era, contro la guerra, un “combattente” generoso». Anche Federico Fornaro, nel suo Giacomo Matteotti. L’Italia migliore (Torino, Bollati Boringhieri 2024), ha scelto porre in risalto il suo impegno per la pace che non conobbe nessun cedimento nell’avversione per la guerra, osteggiata come calamità devastante soprattutto per i più deboli, anche quando nel suo stesso partito si affacciarono tendenze “patriottiche”. Già nell’agosto 1914 Matteotti si schierò favore della neutralità assoluta. E ai fautori del patriottismo replicava con parole molto dure: «Noi non neghiamo l’esistenza della patria, ma non essa è la nostra idealità; un’altra e più alta assai è la nostra aspirazione. E quando a paladini della patria si ergono i clerici moderati, i nazionalisti, i militaristi… e si servono anzi a tale scopo dello straccetto patriottico – allora noi insorgiamo anche contro la patria. Se vi è un luogo piuttosto dove oggi si lotti per la libertà della patria, quest’è in Tripolitania…, e non di qua dalle prime dune di sabbia». Di fronte alla inutile carneficina tra i proletariati europei, propose un vero e proprio scatto di ribellione col ricorso all’insurrezione, quel «sovversivismo» che gli fu attribuito postumo da Piero Gobetti. Sappiamo quanto il suo pacifismo rimase sostanzialmente inascoltato, anche dal partito socialista, giudicato troppo timido per la scelta del «non aderire né sabotare», laddove sarebbero stati necessari gesti più risoluti («tira vento di piccole viltà, anche nel mio partito»).
Matteotti non si fece travolgere dall’infatuazione rivoluzionaria che, nel primo dopoguerra, travolse gran parte del socialismo italiano all’insegna del «fare come in Russia», convinto che non si potessero importare modelli palingenetici dall’estero e che non esistessero scorciatoie per il progresso sociale e convenisse unire, non dividere le forze della sinistra. Accettava da Marx l’imperativo di scuotere il proletariato «per aprirgli il sogno di una vita libera e cosciente». Ma la sua attenzione era poi tutta a un momento d’azione intermedio e realistico: «formare tra i socialisti i nuclei della nuova società: il comune, la scuola, la cooperativa, la lega. Così la rivoluzione avviene in quanto i lavoratori imparano a gestire la cosa pubblica, non per un decreto o per una rivoluzione quarantottesca. La base della conquista del potere e della violenza ostetrica della nuova storia non sarebbe stata vitale senza questa preparazione». Matteotti non aveva tempo per le profezie, sottolinea Gobetti. Gli premeva che operai e contadini «si provassero come amministratori, affinchè imparassero e perciò nei varii Consigli comunali soleva starsene come un consigliere di riserva, pronto a riparare gli errori, ma voleva i più umili allo sperimento delle cariche esecutive». Per Fornaro fu proprio tale estraneità al mito rivoluzionario sovietico che gli consentì di cogliere lucidamente la natura eversiva e intrinsecamente violenta del fascismo, da lui ben analizzato nella fattispecie questione agraria del Polesine. In merito a questa precoce comprensione Matteotti divenne fautore di una tattica di opposizione frontale al fascismo. Per questo fu individuato da Mussolini e dai fascisti come un avversario pericoloso e indomito da mettere a tacere. Sentiva che per combattere utilmente il fascismo nel campo politico – afferma Gobetti – «occorreva opporgli esempi di dignità con resistenza tenace. Farne una questione di carattere, di intransigenza, di rigorismo».
Nemico degli agrari e dello squadrismo, il 12 marzo 1921 Matteotti, dopo una riunione a Castelgulgliemo (Rovigo), viene aggredito e picchiato dai fascisti locali per essere poi abbandonato nei pressi di Lendinara, in aperta campagna. Segretario del Partito Socialista Unitario, scriverà Un anno di dominazione fascista. Quel pamphlet per Gobetti è «un atto d’accusa completo, fatto alla luce dei bilanci, e insieme una rivolta della coscienza morale». Consapevole di essere in pericolo fino a temere della propria vita, era – aggiunge Gobetti – un «volontario della morte», morte dovuta alla sua rettitudine e alla sua «ferma coscienza morale», ritenuta da Matteotti la virtù preliminare e necessaria per contrastare il fascismo.
Matteotti resta un interprete efficace anche per il nostro presente, non solo per il suo spirito unitario e di proiezione verso l’Europa che ancora attende di essere applicato nel nostro presente. Anche per il bilancio del fascismo che Matteotti affrontò intrepidamente fino alla morte. Bilancio che va sottratto all’insidia di un revisionismo compiacente, oggi deciso a minimizzare la realtà storica di una dittatura violenta, totalitaria, bellicista.
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