di Marcello Cecconi
L’eredità lasciata da Amadeus a Carlo Conti e al management Rai per il Sanremo 2025 non è semplice. Sanremo, si sa, è più di un festival: è un rito nazionale, un totem sacro che gli italiani seguono con la stessa devozione con cui scelgono il vino della domenica. Ma da qualche anno il rito sta divenendo sempre più condizionato dall’allineamento tra artisti in gara e i giovanissimi fan che sono diventati il vero pubblico di riferimento per la loro capacità di seguire la tv in verticale, per l’attività sui social, per l’uso dello streaming e per il protagonismo attraverso il televoto.
Giovanissimi dicevamo, perché se lo share medio delle cinque serate festivaliere dell’anno scorso è stato del 66%, per i giovani da 15 a 24 anni lo share ha toccato la cifra record dell’85,2% con la conseguente collocazione in questa fascia di chi ascolta brani sulle piattaforme per oltre sette ore alla settimana. E Amadeus, invitando negli ultimi tre anni, le case discografiche con gli artisti più venduti (Rkomi nel 2021, Lazza nel 2022 e Geolier nel 2023), ha già portato a buon punto la transizione digitale dell’evento.
Eppure, a leggere (nemmeno troppo) fra le righe dei 30 big chiamati da Carlo Conti pare evidente che quella capacità di Amadeus di mantenere la “sostenibilità della qualità musicale” nella transizione digitale, possa venire meno. Il buon Carlo sembra aver deciso di accelerare il marketing digitale sfoderando un cast che sembra uscito da una playlist generata da un algoritmo in cerca di trend e follower.
Sul palco dell’Ariston, forse, mancheranno canzoni che ricordano le onde lunghe di un Mediterraneo che ingoia migranti od ospedali bombardati per un pezzo di terra da conquistare in Palestina, per lasciar posto alla scena urban di Shablo, Guè, Tormento e Joshua, pronti a portare quel mood da “apericena con cuffiette” direttamente su Rai 1. Una scelta che sembra mirare dritta al cuore di molti teenager per abbassare ancora l’età dello share a quelle ragazzine e ragazzini che accendono la tv solo per controllare se il Wi-Fi funziona ancora.
Nonostante la sua sapiente disinvoltura, durante la presentazione dei 30 “big” (virgolette obbligatorie), Conti sembrava più un funzionario pubblico che un direttore artistico, con quel foglietto stropicciato in mano a mo’ di ‘velina’ snocciolando nomi come se stesse leggendo l’elenco degli iscritti al torneo di calcetto del dopolavoro. Tra quei nomi c’è anche Marcella Bella che nel 2007 per l’ultima volta gareggiò con esclusione polemica dalla finale da parte della giuria di quel Festival di baudiana memoria: “Io boicottata a Sanremo per essermi candidata con An – disse qualche tempo dopo la cantante siciliana – Era una giuria di ‘comunisti col Rolex’”. Ora la meritata riparazione ma qualcuno giura di aver visto sul retro del foglietto di Carlo Conti il timbro del Governo Meloni.
Poco importa se la qualità musicale lascia perplessi o se gli agé del festival rimpiangeranno i tempi in cui si discuteva di testi profondi e melodie immortali. Qui si punta sempre più ai numeri, ai follower, ai like. Certo, per gli italiani Sanremo rimane un affare serio, un evento mediatico che monopolizza conversazioni e salotti, ma Carlo Conti, da abile cerchiobottista qual è, sta risalendo su quel palco appoggiando lievemente un piede nella tradizione e affondando pesantemente l’altro nel metaverso. Resta solo da vedere se, tra un follower e uno share, riuscirà anche a far cantare l’Italia.
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