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Il più bel trucco del diavolo: la tragica parabola delle Bestie di Satana narrata da Herold

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di Rock Reynolds

Il Natale è alle porte e parlare del male come fuga da un anonimato spersonalizzante e da un ambiente familiare poco felice non può essere un tema festoso.

Il più bel trucco del diavolo (Rizzoli, pagg 333, euro 18,50), di Gianluca Herold, è un’analisi lucidissima e, a tratti, quasi lirica – nella sua eleganza formale – della parabola di un manipolo di ragazzi all’apparenza normalissimi che, sul finire degli anni Novanta, hanno brutalmente assassinato “almeno” tre amici e ne hanno indotto un altro al suicidio. Almeno, perché una ventina di altri decessi sospetti ha spinto gli inquirenti a ipotizzare che dietro alla sparizione di certi giovani e alla loro morte violenta potessero esserci le “Bestie”, senza però mai trovare riscontri certi.

Gianluca Herold racconta la storia di uno di loro, Andrea Volpe, il “pentito” della banda, ricostruendone il difficile percorso di crescita in seno a una famiglia emigrata al Nord dall’Avellinese, con tutte le complessità del caso, e mai in grado di fornire ad Andrea un contesto domestico di calore e positività. Herold ripercorre le tappe di una vicenda tristissima in cui raramente filtra un raggio di sole. Forse, proprio la scelta di collaborare con la giustizia, imboccando un lungo e difficile percorso di riabilitazione individuale e sociale, attraverso studi universitari e sedute psichiatriche, rappresenta uno dei rari spiragli di positività su cui aleggi una flebile speranza. Volpe, che si porterà appresso per sempre la responsabilità diretta dei tre omicidi e dell’induzione al suicidio di un quarto membro “fragile” e, dunque, sacrificabile della setta, non si considera un pentito in quanto ciò che ha fatto appartiene a un altro tempo e, soprattutto, a un altro “lui”.

il terzo omicidio, quello avvenuto a sei anni dai primi due e quello che, alla fine, porta all’arresto della banda, non ha la medesima spiegazione. Volpe stesso non vuole scoperchiare un pentolone da cui potrebbero nuovamente uscire le altre sue personalità che si sono macchiate di gesti di violenza inenarrabili: l’uccisione dell’ex-fidanzata è il vero peso eterno sulla sua coscienza che nemmeno l’amore autentico per un compagno brasiliano di carcerazione che finirà per sposare sarà mai in grado di stemperare.

Ma chi sono le “Bestie di Satana”? Un manipolo di ragazzi della provincia di Varese – una sedicente setta – accomunati dalla passione per il rock più duro e per certe simbologie sataniste, privi di un’autentica bussola morale e di particolari competenze, nonché pericolosamente inclini all’uso e all’abuso di varie sostanze stupefacenti. Un mix improbabile che, unito a un giovanile anelito verso un senso di appartenenza, ha fatto sbandare i suoi membri in un esplosione di insensati comportamenti violenti, quasi sempre dettati da uno stato mentale pesantemente alterato.

Il male si annida in ognuno di noi. Lo si sente dire talmente spesso, ogni volta che si verifica un episodio di cronaca particolarmente raccapricciante, che questa frase si trasforma inevitabilmente in un fastidioso cliché. Eppure, se ci si sofferma sulla vicenda torva delle “Bestie di Satana” e sulla loro storia così come questo libro la ricostruisce, si ha davvero la sensazione che la banalità del male non sia un mero stereotipo.

Terminato di leggere Il più bel trucco del diavolo, ci restano più domande che risposte, com’è giusto che succeda dopo aver letto un bel libro. Da musicista, mi è capitato di incontrare colleghi che si erano avvicinati per scelta o per casualità al mondo dell’occultismo, più allettati dalla scarsa conoscenza della materia e dalla sua oscura iconografia che convinti della validità di certe tesi e pose. L’intrigo per certe sciocchezze sataniste è assimilabile a qualunque altra sciocchezza esoterica: la possibilità di uscire dalla noia e dall’appiattimento della grigia quotidianità, di sentirsi accolti in seno a una sorta di surrogato di quella famiglia che non si è mai avuta o che, comunque, non è stata in grado di fornire un modello positivo e un ambiente sufficientemente protettivo. Insomma, di sentirsi vagamente importanti o, per lo meno, considerati.

L’americano Alice Cooper, durante una puntata della sua celebre trasmissione radiofonica, ha risposto per via indiretta ai genitori di un ragazzo che si sarebbe suicidato dopo aver ascoltato un brano di hard rock inneggiante all’autodistruzione. L’eccentrico ma brillantissimo rocker ha spiegato che, con il dovuto rispetto, se quei genitori erano davvero convinti che l’origine del malessere del figlio fosse stata quella musica malsana, allora avrebbero dovuto guardarsi dentro, perché di certo non si erano soffermati abbastanza sullo stato depresso del ragazzo quando era ancora in vita. Se è vero che uno dei collanti delle Bestie di Satana era una forma estrema di black metal, le variabili che hanno portato alla deriva criminosa e alla perdita del lume della ragione da parte dei membri di quella setta sono molteplici. «Il disagio giovanile, la noia della provincia, le logiche di branco, il tunnel delle droghe, la musica del diavolo. Ma nessuna di queste categorie, da sola, poteva rendere pienamente ragione della complessità della vicenda.» In fondo, tutti gli imputati del processo tenutosi presso la Corte di assise di Busto Arsizio, sono accomunati da pesanti traumi infantili o più tardivi: abbandono, genitori pregiudicati, morte prematura di parenti stretti, violenze in famiglia, bullismo, problemi fisici pesanti, ristrettezze economiche.

Qualche anno fa, accompagnando un noto autore di thriller americani in un tour promozionale del suo nuovo romanzo, di ambientazione carceraria, ho visitato un istituto di pena in Brianza e mi sono trovato di fronte a una delle Bestie di Satana, presumibilmente Mario Maccione. Non lo ricordo con certezza perché, in teoria, non avrei dovuto nemmeno sapere che uno dei ragazzi che partecipavano alla lezione di scrittura creativa tenuta dall’amico americano era un membro di quella setta famigerata: però, me lo ricordo bene come lo “studente” più attento, quello che faceva più domande.

La forza de Il più bel trucco del diavolo risiede principalmente nella capacità di Gianluca Herold di non indulgere nel piacere morboso di un certo voyeurismo, nel sano mix di distacco e di empatia che consente al lettore di mettersi in connessione autentica con Andrea Volpe – in fondo, il libro nasce da decine di interviste dirette e, quindi, raccoglie molte delle sue parole – e di non giudicare altro che i fatti. Gli episodi sono raccontati con garbo ma senza lesinare sui dettagli più agghiaccianti, non trasmettendo però mai la sensazione di volerlo fare per un gusto macabro, per una malsana spettacolarizzazione del dolore. Perché di dolore in questo libro ce n’è tanto. C’è il dolore dei familiari delle vittime – con l’ostinazione del padre di Fabio Tollis, che aveva capito quasi tutto ben prima di essere degnato dell’attenzione degli inquirenti, e l’estrema generosità del padre di Mariangela Pezzotta che ha finito per fare da mentore a Elisabetta Ballarin, condannata per concorso morale nel suo omicidio, nel suo percorso di redenzione in carcere e fuori dal carcere – e c’è pure il dolore di quei ragazzi in teoria normali che, giunti a un bivio nelle loro vite, lo hanno trasformato nel classico crocicchio in cui si stringe un patto col diavolo. O, più banalmente, hanno imboccato la via del male senza porsi troppe domande. È un dolore senza fondo che dovrebbe ricordare a tutti che i casi della vita e la meccanica della psiche si fondono per creare un percorso esistenziale ignoto. Gianluca Herold sul finire del libro ce lo spiega splendidamente, mettendosi a nudo, dichiarando la propria incapacità di non provare solidarietà per lo stesso Andrea Volpe, quel ragazzo – ora un uomo – che ha rovinato per sempre le vite di almeno quattro famiglie, oltre alla sua.

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