Per ogni critico coscienzioso di qualsivoglia arte il problema della catalogazione, dell’incasellamento di un’opera in un “genere”, in un “filone”, insomma l’uso di etichette, è un guado da attraversare. E guadando il mare magnum dei prodotti artistici, per non rischiare di annegare, il critico volentieri si affida a passaggi già tracciati per giungere tranquillamente sulla sponda che lo attende. I più audaci, magari, tentano nuove rotte, affrontando inesplorati bracci di mare, con lo sguardo sempre fisso sulla riva opposta.
Vi è poi qualche temerario che intende scardinare gli usuali modi di approccio all’arte, bandire semplificazioni, astrazioni e consunti gerghi scolastici, il quale, abbandonando barre e timoni manovrati da altri per percorrere a nude braccia il tratto che lo separa dall’approdo, si getta nelle acque limacciose della critica con la consapevolezza – il desiderio – di smarrirsi, avventurarsi in una conoscenza “altra”, diversa e spuria della materia trattata, che più potrebbe avvicinarlo al vero.
È il caso del critico cinematografico Davide Pulici, che, afferrato da un demone presuntuoso geniale e folle, coadiuvato nell’impresa da Michele Giordano, Manlio Gomarasca e Roger Fratter, ha deciso di scrivere “un’enciclopedia” in quattro volumi sulla (a proposito di etichette fallaci) commedia sexy all’italiana, dal titolo allusivo e polisemico, “Chiavi in mano”, di cui è apparso il secondo volume, Peccati in famiglia (Edizioni Nocturno libri, pp. 528, Euro 29), tratto quale esergo da un film del 1975 di Bruno Gaburro, che si configura come una summa dei tanti libri scritti Come gli appassionati di cinema di genere sanno bene, Pulici è tra i fondatori della rivista “Nocturno”, che da un trentennio alfabetizza gli assetati di cinema bis (niente, non si riesce ad uscire dalle etichette) –, insomma da quei prodotti sprezzantemente disprezzati dalla critica ufficiale, accademica e imbolsita, storicamente concentrata solo sul cosiddetto cinema d’autore. Con un manipolo di spavaldi indagatori, Pulici e i suoi barricaderi compagni hanno portato una ventata (un tornado!) d’aria fresca che ha messo in luce perle e maestri del mondo della celluloide: film, registi, sceneggiatori, artisti e tecnici a vario titolo che rischiavano un criminale oblio. Soprattutto, hanno contestualizzato le loro analisi a tutto campo nel magma sociologico e di costume di un’Italia in continuo divenire, in particolare nel fecondissimo periodo dai Sessanta agli Ottanta.
Ed è esattamente ciò che si trova nel libro che stiamo presentando, una manna per cultori e curiosi, frutto di decenni di studi, di raccolta di preziose testimonianze orali e di fonti scritte – soprattutto, di visione diretta e ripetuta di pellicole anche neglette, dimenticate, e di complicato reperimento. Ecco così scorrere sotto i libidinosi occhi le origini e gli sviluppi degli intrecci erotici familiari presi a tema di questo secondo volume, in cui l’elemento comico talvolta e proditoriamente si mescola al drammatico, come avviene nel seminale Divorzio all’italiana di Pietro Germi, padre disconosciuto del film di genere, di cui si servì per affondare il bisturi dell’arte nelle purulente piaghe d’un’Italia sempre malata e moribonda, anche quando “incantata” dalle sirene d’un “boom” effimero e foriero di cruenti passaggi antropologici.
Parte da lì l’autore di questo frizzante viaggio, perché “è da quel momento che decolla sensibilmente qualcosa che non è soltanto un prodromo o un presagio, ma si fa realtà efficiente e operante all’interno dell’organismo complesso della commedia all’italiana e che contiene sempre in sé la spina erotica”, come esplicitato nell’introduzione. La quale intende parare anche una prevedibile obiezione, cioè che il cinema alto è una cosa, quello da suburra tutt’altra, e confondere le due cose non è criticamente lecito: “Anche questa divaricazione è l’eredità infame di un vecchio modo di tagliare i panni addosso ai film, sulla base di un ‘buon gusto’, che non era buono e non era nemmeno gusto”.
Da Germi fino a Malizia Duemila di Samperi, “bollato dalla censura con il marchio d’infamia di ‘film per tutti’”, si snoda un viaggio trentennale (1961-1991) intrapreso col criterio cronologico già seguito nel primo volume uscito l’anno passato (Novelle proibite di donne svestite), attraverso 235 pellicole (se non abbiamo contato male), nuotando e surfando attraverso capisaldi (Malizia, Grazie zia) e film celebri degli anni Settanta, inabissandosi nei bassifondi delle produzioni meno note, solcando il cinema delle ninfette e delle nipotine, delle cameriere e delle educande traviate, tra mogli vergini nude e siciliane e spose erotiche, gatti mammoni e homines erotici, professoresse e studentesse, prostitute e affittacamere, stalloni e svergognate, portiere nude e preti sposati, harerm e “frittate all’italiana”, attraverso “peccati di gioventù” e vergognosi ed eccitanti “vizi di famiglia”. Ma sono anche tanti i film analizzati che non farebbero storcere la bocca ai soloni della critica: Signore e signori, Sedotta e abbandonata e Serafino (ancora Germi), Ritratto di borghesia in nero(Cervi), La stanza del vescovo (Monicelli), Vedo nudo (Risi), Il piatto piange (Nuzzi), Per grazia ricevuta (Manfredi), Il commissario Pepe, Dramma della gelosia e Brutti sporchi e cattivi (Scola), Il divorzio (Guerrieri), e altri ancora. Di ognuno viene fornita una scheda, mai pomposa né imbrigliata in tagli accademici, ma vivace e dal tono sfrontato tipico dell’autore, sempre provvista della trama e di preziose informazioni sugli artisti coinvolti, i tempi delle riprese e l’impatto avuto all’uscita, con anche l’indicazione di eventuali tagli cui la pellicola fu soggetta, e non manca una nutrita sezione fotografica.
Pulici giunge ad un momentaneo approdo, liberare il “ciarpame critico che arriva dal passato e continua a gravare come un macigno di Tantalo” sul modo di vedere a analizzare i film della nostra cinematografia, ben più ricca e variegata di come ci è stata raccontata, seguendo un approccio filologico già a partire dai termini cardine su cui veleggia questo viaggio: “commedia” ed “erotico”. Poiché lo scafo, o le nude braccia cui si è affidato per solcare le acque procellose della commedia erotica italiana, ha seguito una rotta che l’allontana dalle “fumisterie e dagli idealismi che la critica colta (si fa per dire) ha creduto di esprimere avvicinandosi al fenomeno, generando studi balzani e ampollosi”. Cosa che gli permette di dare il meritato rilievo ad artisti dileggiati come Lando Buzzanca (re della “linea sicula”), agli imprescindibili Banfi, Fenech e nutrita compagnia, alla scintillante serie di avvenenti (e talora anche buone) attrici, due delle quali (Gloria Guida e Dagmar Lassander) scelte opportunamente seminude per l’allusiva copertina, oltre al ricordo dei mattatori e grandi interpreti dei film sunnominati. Ma soprattutto, di decifrare “la figura nel tappeto” di tanti film dimenticati, che messi insieme forniscono un ritratto fascinoso e attendibile di quel che eravamo, e che forse ancora siamo.
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