Se nasci nella periferia di Napoli e cresci in una piccola casa e sovraffollata (cinque fratelli, due genitori, due nonni e cinque nipoti), o si chiama Massimo Troisi o si rassegna all’anonimato fin dall’infanzia. Massimo Troisi decise di far onore al suo nome e di combattere contro un destino difficile, acuito fin dalla giovinezza da dolorose febbre reumatiche che produssero lo scompenso cardiaco alla valvola mitralica che gli sarebbe stato fatale ad appena 41 anni.
Il 4 giugno del 1994 appena 12 ore dopo la fine del suo film più ambizioso e impegnativo, «Il Postino», Massimo scivolava dal sonno alla morte nella casa di sua sorella Annamaria, a Ostia, dove aveva trovato rifugio dopo le fatiche di un set che non avrebbe dovuto affrontare.
Alla vigilia del «Postino», Troisi era tornato in America dal chirurgo (De Beckey) che già una volta l’aveva operato in gran segreto al cuore agli inizi della carriera. Sapeva di non poter affrontare il doppio sforzo dell’ideazione e dell’interpretazione (nonostante avesse lasciato la regia a Michael Radford per arrivare alla fine delle riprese) ma scelse di non risparmiarsi per avere l’opportunità di Philippe Noiret nel ruolo del poeta Neruda. Era rassegnato ad andare incontro al suo destino, del resto giocava a nascondino con la morte da sempre e spesso ci aveva fatto dell’ironia tratteggiando personaggi che scompaiono prematuramente («no, grazie il caffè mi rende nervoso» e perfino intitolando il suo film Tv «Morto Troisi…viva Troisi» (1982).
Nato il 19 febbraio del 1953 da un macchinista ferroviere e da una casalinga, il «Pulcinella senza maschera» che il pubblico avrebbe amato fin dall’esordio con «Ricomincio da tre» (1981), si era formato sulle tavole del palcoscenico, istintivo erede di Eduardo e di una napoletanità irridente e dolente che avrebbe traghettato in un diverso sentire, quella della «nuova Napoli» di Pino Daniele e di Roberto De Simone. Col gruppo «I Saraceni» e poi con gli inossidabili amici de «La Smorfia» (Lello Arena ed Enzo Decaro) uscì presto dai confini vernacolari del successo paesano per portare la sua lingua (un napoletano vivacissimo e torrenziale, sincopato e colorito, «l’unica lingua che so parlare, a dire il vero») sulle reti televisive nazionali e poi al cinema. Com’era accaduto a Eduardo e a Totò, quella parlata divenne comprensibile a tutti oltre le parole, sinonimo di un sentire universale in cui la maschera diventava volto e il personaggio un paradigma universale.
Il successo fu inatteso, clamoroso, immediato. Erano gli albori di quegli anni ’80 che portavano alla ribalta insieme a lui la generazione dei Moretti e dei Benigni, ma fu proprio col toscanaccio Roberto che Troisi trovò un’empatia istintiva, festeggiata dal pubblico col clamoroso successo di «Non ci resta che piangere» (1984) in cui il suo surreale «grammelot» faceva da efficace contrappunto alla paradossale cornice storica di un esilarante viaggio nel tempo fino alla Firenze medicea. La critica aveva amato di più l’opera seconda del regista Troisi («Scusate il ritardo», 1983), Manon fu sempre generosa con l’autore, salvo poi tributargli grandi encomi postumi dopo le quattro nominations de «Il Postino» che nel 1996 fruttarono al film l’Oscar per la colonna sonora di Luis Bacalov. Ma la sua filmografia, spesso segnata dal sodalizio affettivo e artistico con la sceneggiatrice Anna Pavignano, meriterebbe anche oggi una rivisitazione da «Le vie del Signore sono finite» (1987) a «Pensavo fosse amore… e invece era un calesse» (1991).
Fu invece un collega, Ettore Scola, a intuire le potenzialità di un attore/autore assolutamente unico fino a farne l’anima del suo appassionato «Il viaggio di Capitan Feacassa» (1990) in cui vestiva la maschera di Pulcinella e a dargli l’opportunità di dialogare sul set con un maestro come Marcello Mastroianni. Ne uscì una coppia di film assolutamente unici come «Che ora è?» e «Splendor» (nel 1989) e per il primo Massimo ebbe la Coppa Volpi alla mostra di Venezia. Nella bacheca di Troisi i premi (dai David ai Nastri d’argento) non mancavano ma proprio il successo planetario de «Il Postino» dice quanta strada avesse ancora davanti il ragazzo di San Giorgio a Cremano. Vent’anni dopo resta il sentimento di un talento irripetibile e luminoso che senza Napoli non sarebbe esistito ma che a Napoli ha restituito la statura di una vera capitale mondiale. Il Pulcinella senza maschera oggi avrebbe l’età giusta per prendersi l’Oscar che il destino gli ha negato. Ma lassù (come quaggiù) lo amano in molti lo stesso.
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