di Antonio Salvati
L’ultimo volume dello scrittore Paolo Nori, grande conoscitore della cultura e della letteratura russa, Una notte al Museo Russo (Laterza, 2024 € 15,00 pp. 144) non è un’analisi accurata del famoso museo di San Pietroburgo. Tanto che non gli sono dedicate neanche dieci pagine. Praticamente tutto il libro è una sorta di reportage della Russia, o meglio di una parte di essa, raccontata appassionatamente, per ricordarci la bellezza e l’importanza della poesia e della cultura russa in generale. Un piccolo affresco sulla vita quotidiana in Russia dopo l’inizio dell’”operazione speciale” in Ucraina. Evidentemente l’attualità domina queste poche pagine concentrate soprattutto su San Pietroburgo, che «ha la fama di essere la capitale intellettuale della Russia», che dietro la patina di apatica indifferenza, nasconde una visione acuta, una passione e una libertà argomentata, sulla vita e sulle cose, che invitano a riflettere.
Nori si sofferma sul ruolo degli intellettuali, soprattutto di quelli russi. Quando parla di cultura russa difende la cultura e la letteratura in generale, utilizzando gli avvenimenti odierni come una sorta di riflesso o di specchio di cosa siamo diventati, con le nostre codardie, il nostro sonnambulismo, utilitarismi, senza il coraggio che ci vuole non solo per fare ma anche per difendere la letteratura. Non a caso l’epigrafe di questo libro riporta una frase di Gogol: «non è colpa dello specchio, signori, se le vostre facce sono storte». Gli scrittori in Russia sono stati nell’Ottocento e nel Novecento i principali nemici e critici del potere. Erano temuti, «sorvegliati, puniti, arrestati, perseguitati, torturati, uccisi e vietati. Non si potevano leggere; non si dovevano, leggere. E i russi, di conseguenza, li leggevano: la seconda volta che sono andato in Russia la mia insegnante di russo mi ha chiesto se avevo letto un romanzo di Trifonov, La casa sul lungofiume (andavo ad abitare nella casa che dà il titolo al romanzo, dietro al Cremlino, dove ha abitato anche la figlia di Stalin), e quando io le ho risposto di no e le ho chiesto se lei l’aveva letto, lei mi ha risposto “Per forza, l’ho letto, era proibito”». I libri proibiti erano i libri da leggere e i russi avevano inventato una pratica, si chiama samizdat: battevano a macchina i libri proibiti, con la carta carbone, e leggevano quelli, quelli erano i libri da leggere, «e la censura sovietica non aveva, sulla letteratura, nessun potere, anzi, la censura poteva, in un certo senso, decretare un successo letterario, anche se sottobanco».
Alcuni degli autori citati hanno fatto esperienza del carcere maturando rabbia e nello stesso tempo voglia di raccontare, come ben esprime uno dei maggiori poeti russi Osip Mandel’stam: «Togliendomi i mari, la corsa e il volo e dando al piede l’appoggio di una terra coatta, che cosa avete ottenuto? Bel calcolo: non potevate amputarmi le labbra che si muovono». Come nel caso di Pasternak, la vita e le opere di Mandel’stam, nato nel 1891, hanno testimoniato le difficoltà della vita al tempo di Stalin. La poesia suddetta è stata scritta durante un periodo di confino. È stato condannato a diversi anni di lavori forzati per “attività controrivoluzionarie”. Muore nel 1938 durante il trasferimento verso un campo di lavoro in Siberia. Non a caso, del suo tempo, del suo secolo scrisse: «Mio secolo mio, mia belva, chi potrà/guardarti dentro gli occhi/ e saldare con il suo sangue/ le vertebre di due secoli?»
Nori evoca più volte Anna Achmatova, nata il 23 giugno 1889 a Odessa, della quale ha scritto un libro. Achmatova fu soprattutto una poetessa molto amata dal popolo russo, ma anche dal mondo intero. L’Achmatova fu la prima donna russa a cantare l’amore in tutta la sua passionalità e carnalità che fino a quel momento nessuno aveva osato descrivere, se non attraverso simboli. La sua voce si è dimostrata unica nella Russia travagliata a causa della rivoluzione, delle guerre e della perenne povertà in cui sprofonda l’immenso territorio, anni in cui era difficile distinguere «chi è una belva, chi è un uomo». Il 25 agosto 1925 il suo ex marito Gumilev viene accusato di aver preso parte ad un complotto filo-monarchico e viene fucilato. Anna viene vista come ex moglie di un controrivoluzionario; inoltre negli anni tra il 1917 e il 1921, non si era espressa in alcun modo riguardo all’adesione alla Rivoluzione, pur scegliendo di non emigrare. Infatti, l’Achmatova insieme a Boris Pasternak, è l’unica artista che non ha lasciato mai la sua patria. Dalla seconda metà degli anni ’20 fino al 1940, il partito non riteneva opportuno deportarla o imprigionarla, ma la controllava sottoponendola a ricatti, colpendola negli affetti più cari. Così la sua produzione poetica si interrompe in questi anni, fino alla fine degli anni trenta. Nel 1935 il figlio Lev, nato dal matrimonio con Gumilev, viene arrestato e condannato a morte – condanna poi convertita in deportazione nei gulag – e la causa presunta è il cognome del padre. La paura di una possibile condanna a morte del figlio spinge Anna a tentativi estremi per cercare di liberarlo a cui non sarebbe mai giunta se non per motivi davvero importanti, quali, appunto, la carcerazione di Lev. Per salvarlo, infatti, Anna scende a compromessi con Stalin, il tiranno che ella tanto non tollerava, e cerca di persuaderlo affinché le restituisca il figlio. Oggi, sostiene Dacia Maraini, sarebbe stata contro la guerra in Ucraina. La guerra in Ucraina somiglia a un’allucinazione: si persegue la “via più breve” della violenza evitando quella “più lunga” della parola che – direbbe Massimo Recalcati – implica il tortuoso cammino simbolico del lutto. La Legge della forza si sostituisce così a quella della parola. È proprio per questa ragione – aggiunge Recalcati – che la democrazia porta nel suo cuore una profonda esperienza collettiva del lutto. Quale? «Non esiste una sola lingua, non esiste un solo popolo, non esiste una sola interpretazione della verità. Diversamente, tutti i regimi non democratici sono tendenzialmente sospinti verso la guerra perché, rigettando il difficile lavoro del lutto, perseguono una realizzazione della verità che esclude forzatamente la divergenza e il pluralismo imposti dalla Legge della parola». Una guerra assurda che ha generato forti sentimenti russofobi. Chi parla di Gogol’ e Dostoevskij rischia di essere considerati filorusso. Nori non ha problemi a dichiararsi un filorusso: «Io sono innamorato, da trentadue anni, di un paese straordinario, dove si parla una lingua straordinaria e dove vive della gente straordinaria che ha generato una cultura straordinaria. Immaginare, poi, che la mia ammirazione per la lingua, la cultura e la gente russa, sia necessariamente ammirazione per i governanti, russi, sarebbe come immaginare che le migliaia di studenti che vengono, tutti gli anni, in Italia, ci siano venuti e ci vengano perché hanno ammirato e ammirano Paolo Gentiloni, o Giuseppe Conte, o Enrico Letta, o Matteo Renzi, o Giorgia Meloni, o Mario Monti».
Rimane sempre opportuno distinguere il bene dal male, il bello dal brutto; e la letteratura ci aiuta in questo non facile compito.
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