di Rock Reynolds
Le insidie più subdole, le trappole più infide, sono quelle da cui siamo attorniati nella vita di tutti i giorni, quelle che, proprio perché sono a un palmo di naso da noi, finiamo per non scorgere o per sottostimare. La quotidianità si nutre di rapporti costanti, ripetuti, spesso intimi, in seno ai quali, soprattutto quando si entra nelle sfere familiare, amicale e professionale, è difficile scavare dall’esterno e portare alla luce distorsioni relazionali. Ed è proprio la familiarità ad abbattere molte barriere protettive o a renderle inefficaci: la parte debole o quella che, pur non essendola per definizione, finisce per risultare più fragile all’interno di uno scambio sbilanciato, tende a essere manipolata e a perdere autostima o, nei casi peggiori, addirittura a mettere in discussione la propria salute mentale.
È questo, in sintesi, il gaslighting, un fenomeno non certo nuovo ma balzato agli “onori” della cronaca soprattutto negli ultimissimi anni, al crescere dell’interesse mediatico nei suoi confronti. Non a caso “gaslighting” nel 2022 «è stata eletta parola dell’anno dal dizionario Merriam-Webster». Molti tendono a ridurlo a un problema di coppia, ma la realtà è un’altra: «può manifestarsi in ogni situazione in cui siano riconoscibili… asimmetrie di potere o di status».
Un libro che faccia luce e ordine sull’argomento risulta estremamente utile e Inganni e potere. Il gaslighting (Edizioni Spartaco, pagg 248, euro 18), di Rita Raucci, Stefania Sparaco, Maria Giovanna Petrillo e Claudio Lombardi, può essere lo strumento giusto.
Rita Raucci, che lo ha curato insieme a Claudio Lombardi, sa usare le parole giuste: «Il dominio di una parte rispetto all’altra all’interno di un rapporto, diversamente motivato e attuato con modalità subdole, è in grado di segnarne lo sviluppo in termini disfunzionali». Per capire meglio alcune sfumature del problema – non sempre chiare al pubblico – le abbiamo chiesto di indicarcene i tratti essenziali.
Si sente parlare sempre più spesso di “gaslighting”. Racconti al grande pubblico che cos’è e perché è importante discuterne.
«È un’aggressione emotiva prolungata nel tempo, che fa leva sul sentimento profondo che una persona prova nei confronti di chi ne abusa. Il fine del gaslighter è il controllo e il dominio all’interno della relazione, che può essere sentimentale ma anche familiare o professionale, in modo che l’altro/altra diventi succube e ne subordini la propria identità. Il manipolatore si insinua nelle fragilità della vittima e se ne serve per destabilizzarla e indebolirla; dal suo canto, l’abusato/a, trovandosi in un clima di falsa fiducia e accoglienza, concede al proprio animo di esprimersi senza riserve, rimanendo ingabbiato/a attraverso la sua stessa collaborazione. Diffondere la conoscenza del fenomeno potrebbe aiutare a riconoscerlo e, in qualche misura, a limitarlo».
Non si è mai pensato a un termine italiano che renda più fruibile questo concetto?
«Il termine cinematografico, nato come titolo di un film americano del 1944 (per la regia di George Cukor), Gaslight appunto, è iconico nel rimandare all’azione strategica di manovrare l’intensità della luce a gas e manipolare così la visione da parte della vittima, tanto che è stato mutuato in ambito clinico come idoneo a indicare il fenomeno. La difficoltà di renderlo in modo più chiaro si è posta con la traduzione del film nelle varie lingue: in Italia si è preferito il titolo Angoscia, mentre in altri paesi sono state utilizzate parole come “Incubo”, “Ossessione”, tutti sostantivi che riferiscono dello stato d’animo piuttosto che dell’identificazione del fenomeno».
Da dove nasce l’idea di questo progetto e, soprattutto, di questo libro?
«L’idea di analizzare il gaslighting nasce da una mia indagine sulle forme di violenza facilitate dagli stereotipi di genere, uno studio riferito a storie insidiose di prevaricazione non necessariamente legate a patologie, quanto, piuttosto, a convenzioni sociali irrispettose della parità dei diritti e delle libertà. Da questa ricerca è nata la sceneggiatura di un cortometraggio, scritta con Claudio Lombardi e Paolo Mazzarella. Io vivo per te – questo il titolo del corto, visibile attraverso un QR code presente all’interno del libro – è stato accolto con inaspettato favore in molte università, sia italiane che europee, oltre che nel circuito dei festival, a testimonianza del fatto che verso il tema della violenza psicologica non c’è semplice curiosità ma vero interesse. Dal corto, su proposta di Claudio Lombardi, abbiamo continuato ad approfondire il fenomeno e il saggio è venuto fuori nient’altro che dalla elaborazione delle nostre ricerche e di quelle delle altre autrici dell’opera, Maria Giovanna Petrillo e Stefania Sparaco».
A un certo punto, nel vostro libro, si dice che il gaslighting andrebbe studiato “con l’approccio sistemico delle scienze sociali”. Ci spiega meglio cosa intende?
«Il gaslighting è principalmente oggetto, come è corretto che sia, di discipline specifiche, come quella clinica o criminologica. Tuttavia, trattandosi di una violenza “pulita”, non visibile, che si consuma in un rapporto in cui le parti, per varie ragioni, non si trovano in equilibrio è legittimo chiedersi se esistano delle asimmetrie di potere o di status che favoriscano il fenomeno. Nel testo è approfondita questa prospettiva, ossia la possibilità che il gaslighting possa essere trattato come vicenda umana, singola e di massa, dagli aspetti trasversali, rilevante per il suo carattere sociale e non trascurabile sul piano culturale e della formazione».
Immagino che questo fenomeno sia sempre esistito e, allora, perché parlarne tanto soprattutto adesso?
«Il fatto che non se ne parlasse prima rimanda con evidenza a una scarsa conoscenza del fenomeno. L’attenzione verso forme di violenza non solo fisica ne ha portato fuori l’esistenza e la gravità. Si tratta infatti di una violenza raffinata e senza tracce immediatamente visibili e, per questo, sembra che continui a non esistere. La stessa vittima ha questa percezione: prioritaria, dunque, è la necessità di diffonderne la conoscenza, affinché chi subisce questo tipo di aggressione riesca a riconoscerne i tratti, camuffati e non facilmente identificabili, sia incoraggiato a chiedere aiuto e a uscire da questo genere di rapporti».
“L’arma principale del gaslighter è la parola.” Ma la manipolazione può avvenire in tanti altri modi, giusto?
«Il gaslighter, come attore della manipolazione, ha l’obiettivo di dominare emotivamente la vittima. Lo fa di certo, come in qualsiasi altra forma di manipolazione, con l’uso apparentemente innocuo della parola: l’abusante ammalia, attrae, induce all’affidamento così come strategicamente, al momento opportuno, per essere più efficace deride, umilia, annienta. Ma per ottenere questi effetti e, dunque, ai fini della manipolazione, può servirsi anche d’altro: in primo luogo del silenzio punitivo, che ha l’esito di sminuire, rendere irrilevante la vittima, fino a farla sentire invisibile, quando tale circostanza è protratta a lungo, per mesi in alcuni casi. Altresì, tipiche di questo abuso sono le infinite azioni strategiche che portano la vittima ad uno stato confusionale o al pensiero di essere folle; d’altro canto, lo stesso termine gaslighting indica un intervento manipolatorio diretto ad alterare la lucida visione di una luce a gas. Gli esempi di pratiche che inducono ad immaginare una “realtà” che non esiste, o diversa da quella che si vede, possono essere numerose, come per esempio far sparire oggetti dal luogo in cui la vittima li aveva posizionati e farli ricomparire altrove, creare ad arte ostacoli e impedimenti nella quotidianità anche professionale in modo tale da far sentire la vittima una nullità e il manipolatore un indispensabile punto di riferimento».
Esiste in Italia una struttura ufficiale a cui le vittime di gaslighting possano rivolgersi? Oppure è ancora tutto nelle mani dell’iniziativa privata di qualche volontario?
«Tutti i centri antiviolenza, ormai, accolgono e forniscono supporto anche a vittime di “sola” violenza psicologica. Esistono, poi, numerose associazioni che offrono assistenza sia di carattere psicologico che, all’occorrenza, legale. In più, l’attenzione al tema sta portando a un ampliamento della formazione, con l’inclusione di queste forme di aggressione diverse da quelle più conosciute, per il personale che a vario titolo possa entrare in contatto con le vittime, come per esempio quello delle forze dell’ordine. Si tratta di importanti passi avanti nella prospettiva di un contrasto effettivo».
Quale suggerimento si sente di dare a chi ha bisogno?
«Generalmente la vittima di gaslighting vive isolata e avverte un profondo malessere che non riesce a identificare. Il più delle volte è concentrata a resistere all’interno del rapporto, per cercare un illusorio equilibrio. In presenza di diffuse informazioni dirette a rendere riconoscibili i tratti di questa subdola aggressione, chi ne è vittima potrebbe riconoscersi e scoprire che le cause del disagio si possono eliminare se affrontate in modo adeguato. D’istinto, e anche un po’ in modo superficiale, verrebbe da suggerire a chi subisce gaslighting di fidarsi del dolore che prova, rompere l’isolamento e liberarsi della relazione tossica: ma come fa una vittima di aggressione a chiedere aiuto se non sa di essere aggredita?»
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