di Rock Reynolds
Session man, sideman, turnista: sono solo alcune delle espressioni gergali con cui si indica di volta in volta lo strumentista che “presta” le proprie capacità a questa o quella star. Solitamente, dal vivo, lo si vede rispettosamente un passo (anche due) indietro e di fianco rispetto al cantante famoso che accompagna. All’ascoltatore medio e, ancor più, al fan poco importa chi sia a svolgere tale ruolo. Spesso non si rende nemmeno conto di quanto sia importante, se non determinante.
Eppure, la storia della musica pop-rock è ricca di brani impreziositi dalla presenza di oscuri musicisti di talento e non è affatto raro che una canzone entrata di prepotenza nell’immaginario collettivo internazionale debba gran parte della propria fortuna a un riff di chitarra o a un arpeggio di pianoforte senza i quali rischierebbe di risultare orba. Mi viene in mente un caso quasi da manuale, quello della linea di basso di “Walk on the wild side” di Lou Reed, uno dei maggiori successi del compianto cantautore newyorchese. A suonarla in sala di incisione fu il noto turnista Herbie Flowers, scomparso lo scorso 5 settembre all’età di 86 anni.
A Flowers fu chiesto semplicemente di farsi venire in mente una parte sensata per una semplice sequenza di accordi scarabocchiata da uno stanco Lou Reed su un foglietto e lo fece con il contrabbasso, successivamente ottenendo dal produttore di doppiarla con un basso elettrico: doppia paga standard, certo. Ma pensate a cosa rappresenti quel doppio basso per l’economia del pezzo: certo, grande canzone questa “Walk on the wild side”, in grado di reggersi in piedi anche con la sola traccia vocale del suo autore. Però, è il glissato del basso di Flowers a compiere la vera magia.
Phil Palmer è, a sua volta, un rispettato e richiesto session man, un chitarrista molto preciso – e l’accuratezza è una delle principali doti richieste ai turnisti – che vanta un curriculum di primo piano. Da qualche anno, è per giunta mezzo-italiano, per via del matrimonio con l’adorata Numa e per le numerose collaborazioni con alcuni dei nomi di maggior spicco del panorama musicale del nostro paese. «Ho ancora qualche difficoltà con i vostri verbi» ammette. «Ma la musica italiana affonda radici uniche in un passato all’insegna della musica classica e della passione per i bei suoni e la maestria… Gli italiani apprezzano la grandezza e la elogiano, mentre altri cercano di replicarla senza successo. Ho iniziato a cogliere questa passione lavorando al fianco di Battisti e Baglioni nei primi anni Ottanta e continua a piacermi.»
Molti ricorderanno pure la super-band con la quale Palmer pubblicò nel 1993 un album di classici della storia del rock di grande successo, Spin 1ne 2wo.
Session Man. Vita da chitarrista (Minimum Fax, traduzione di Flavio Erra, pagg 360, euro 19) è una raccolta di memorie fatta da chi – mentre imperversava il Covid, il fattore spaiante che, secondo soltanto alla digitalizzazione del mondo, stava trasformando in modo irrevocabile l’ambiente musicale – aveva capito di poter voltarsi a riflettere sul mestiere “più bello del mondo”.
In Session Man troverete ricordi di infanzia, riflessioni nostalgiche, aneddoti buffi ed episodi poco edificanti, momenti felici e altri di profondo scoramento. Troverete un uomo che si racconta senza troppi filtri. Anche se siamo convinti che, some spesso succede, molte cose interessanti siano troppo delicate da mettere nero su bianco, considerato che Phil Palmer è ancora più che attivo nella musica e che alcuni dei personaggi di cui ha impreziosito le opere erano quantomeno eccentrici, per non dire scostanti. Un elenco pur parziale delle star a cui ha prestato la sua chitarra fa impallidire: Eric Clapton, Mark Knopfler, Tina Turner, George Michael, Bob Dylan. Paul McCartney. Ed è proprio la chitarra l’inevitabile punto di partenza e arrivo, il vero faro che illumina una vita.
Qual è stata la cosa che l’ha fatta innamorare perdutamente della chitarra?
«Forse, aver sentito suonare Big Bill Broonzy, una leggenda del blues. L’impatto che ebbe su di me fu enorme. Il suo stile e la sua tecnica erano cose che non avevo mai visto né sentito prima. Era una specie di “one-man band” per come usava in modo ritmico e melodico la chitarra acustica. Sto tuttora cercando di imparare a riprodurlo.»
Avere due zii come Ray e Dave Davis, i Kinks, è stato un limite o un vantaggio?
«Certamente un vantaggio. La rivoluzione rock’n’roll degli inizi si è svolta intorno a me e io sono stato risucchiato da quel vortice avventuroso ed eccitante. Osservare i Kinks è stato fonte di ispirazione e andare in tournée negli USA quando avevo 20 anni mi ha cambiato la vita. Non mi sono mai voltato indietro.»
Cosa si sente di suggerire a un giovane che si accosti alla musica?
«Oggi la musica è diversa da quei tempi pionieristici. È una vera e propria industria e i musicisti giovani devono evitare trabocchetti e campi minati. È facilissimo credere alle montature intorno a progetti di successo. Dietro ogni successo (o quasi) ci sono lavoro duro, investimenti e un po’ di fortuna, oltre al talento e alla determinazione.»
Come ha vissuto la transizione a un mondo oggi totalmente digitalizzato?
«In realtà, è stato un processo graduale. All’inizio, le registrazioni digitali, i campionamenti, i loop e via dicendo erano una specie di novità e, mentre si insinuavano nel nostro mondo, non li vedevamo coma una minaccia alla nostra stessa esistenza. Ma, dopo un ventennio circa di evoluzioni tecnologiche, i turnisti hanno iniziato a soffrire. I primi a patire sono stati i batteristi: con l’avvento delle batterie elettroniche, seguite dal basso synth e, progressivamente, dalla programmazione di ogni strumento con infinite variazioni e modifiche, la post-produzione si è imposta! Sono felice di dire che c’è un club esclusivo di bravi musicisti che sono rimasti attivi: non si possono riprodurre il groove, il feeling e la personalità con un computer. Almeno per ora!»
In questo libro si è sentito del tutto libero di esprimersi?
«Ho fatto in modo di non offendere nessuno. Anche se ci sono stati diversi artisti nella mia carriera che ho evitato per scelta. È facilissimo farti fuorviare dalla sensazione di essere importante. Ho sempre cercato di restare umile e grato. Per certi artisti è stata una vera fortuna avere successo, eppure pensano di avercela fatta per via del loro enorme talento!»
Se dovesse fare il nome di un musicista fondamentale per la sua carriera, quale sarebbe?
«Sicuramente Eric Clapton. Suonare in quella band e trovarmi alle spalle di EC in quel periodo della mia carriera mi è stato di grande insegnamento. Eric mi ha incoraggiato a essere me stesso, a essere libero ed espressivo. Un’esperienza fantastica!»
Come vedeva le figure del “direttore musicale” e del “direttore artistico”?
«Dipende tutto dall’esperienza. Chi è da una vita in prima fila nel nostro settore trasmette una sicurezza essenziale per l’allestimento di un grande evento. Nasce tutto dalle idee e dai concetti dell’artista, ma serve un conducente che conosca la strada.»
Una domanda impossibile: Gibson or Fender? E perché? C’è modo di avere gli aspetti migliori di entrambe in un solo strumento?
«Fender, per quanto mi riguarda. La Stratocaster è un oggetto meraviglioso dalle curve che si adattano al corpo umano. Concepita nel 1954, non ha mai cambiato forma o aspetti essenziali in settant’anni di vita perché funziona sul piano sonoro tanto quanto estetico. Un marchio chiamato PRS produce quello che è il tentativo di combinare gli aspetti migliori di Fender e Gibson e non è niente male!»
Chi sono stati o magari continuano a essere i suoi eroi musicali?
«Ho sempre adorato la musica di Donald Fagen e dei suoi Steeley Dan. Hanno influenzato enormemente il mio stile chitarristico senza dover sconfinare nel mondo del jazz, ma ho pure avuto il piacere di lavorare con Joni Mitchell che, a mio parere, è un genio della musica.»
Le è capitato di non sentirsi adeguatamente apprezzato da una star con cui stesse lavorando?
«Domanda spinosa… però no. Sono sempre riuscito a trovare il mio ruolo in ogni situazione. È una sorta di arte: conosci il tuo posto e apprezzane i vantaggi!»
È stato frustrante non ricevere un trattamento economico adeguato per un contributo che, a suo dire, andasse al di là di un semplice riff?
«A noi turnisti veniva chiesto di fornire idee e creare parti soliste sulla base delle nostre capacità, che in fondo erano il motivo per cui venivamo reclutati. Non è mai stato frustrante: rientrava tutto nel servizio da fornire!»
L'articolo Phil Palmer: il destino di un session man proviene da Globalist.it.