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Malanotte: libero arbitrio e libera follia nel racconto di Renato Vallanzasca

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di Rock Reynolds

Che il nostro fosse un paese di commissari tecnici era un fatto assodato da tempo. Che la trasformazione dei suoi cittadini da pallonari in virologi e immunologi stesse per essere consegnata alla storia altrettanto. Ma che gli italiani diventassero pure esperti di diritto penale e fini costituzionalisti non credo siano stati in molti a prevederlo. Eppure, se l’occasione fa l’uomo ladro, evidentemente l’attualità gli trasmette slanci che sarebbe prudente controllare.

Negli ultimi mesi la “questione carceri” è balzata ai disonori della cronaca con prepotenza. Sovraffollamento, suicidi, pestaggi ai danni dei detenuti da parte di una minoranza deviata delle guardie. Insomma, condizioni di vita indegne di un paese civile. La privazione del decoro alla fine è esplosa in una serie di rivolte, soprattutto nelle strutture per minori, rompendo con violenza la cortina di silenzio colpevolmente innalzata intorno alla questione da una classe politica sonnacchiosa. E, come spesso capita, quando un problema si fa particolarmente dirompente, trasformandosi in un tema se non dirimente per la stabilità del governo quantomeno scivoloso, le chiacchiere da bar sono quasi inevitabili. E il popolo tende a essere superficialmente forcaiolo, incapace di pesare il giudizio. Le equazioni classiche “Ha infranto la legge, ben gli sta!” oppure “In galera per tutta la vita!” o, ancora, “Dove crede di essere? In un albergo a cinque stelle?” si sprecano, senza che al cittadino medio risulti chiaro cosa significa perdere la libertà e, ancor più, perdere al tempo stesso pure la dignità che nessuna condanna dovrebbe mai cancellare e che, di certo, la nostra Costituzione non prevede di togliere a nessun detenuto.

Un libro come Malanotte (Baldini+Castoldi, pagg 135, euro 18) può essere un ottimo strumento per riportare in superficie la solidarietà e l’empatia che sono sempre presenti in noi. Anzi, potrebbe contribuire a restituire quel senso di giustizia umana a cui la giustizia penale non dovrebbe mai sostituirsi. Malanotte, infatti, è una chiacchierata accorata fra una giornalista, Micaela Palmieri – volto noto della RAI – e Renato Vallanzasca, un nome che ancor oggi fa tremare le gambe a molti. Frutto di numerosi, ripetuti incontri tra i due, Malanotte ha qualcosa di sincero che ti prende dalle prime righe e mette a nudo gli aspetti meno noti del “delinquente” per eccellenza degli anni Settanta, il “ras del Giambellino” che, con le sue intemerate, ha davvero inciso uno sfregio indelebile nell’immaginario sociale di un’Italia sempre più lontana. Scritto con un piglio da hard boiled classico americano – sfido chiunque a leggerne un passo anonimo senza conoscerne tema, protagonista e autrice e a non immaginare che sia stralciato da un noir di strada – Malanotte racconta a spizzichi e bocconi la vita sbalestrata di un uomo che, piaccia o meno, ha sempre avuto un’etica ferrea, persino nelle imprese meno edificanti. Malanotte, che giustamente porta la firma sia della Palmieri che di Vallanzasca stesso, vi appassionerà come un romanzo e vi intrigherà come un reportage. E, soprattutto, vi farà sorridere e commuovere.

È di questi giorni la notizia di un peggioramento delle condizioni di salute di Renato Vallanzasca e di un suo possibile trasferimento a una struttura in cui possa ricevere cure più adeguate. Tra le parole di Vallanzasca raccolte in Malanotte si percepisce la malinconia del tempo che passa. Un tempo che – anche se nell’accezione popolare si dipana con implacabile lentezza tra le mura di una prigione, come se la mano di un Dio iracondo ne frenasse l’incedere – alla fine scorre veloce e impietoso come per chi in un carcere non ha mai messo e mai metterà piede.

Rimando alle parole di Renato Vallanzasca stesso chi, magari dopo aver letto Malanotte, continuerà a pensare che, con tutte le sofferenze inferte da chi delinque alla società, un detenuto non si possa mai lamentare della sua condizione e che per chi si è macchiato di certi crimini non deve esserci la minima pietà: «Dolore e morte per tutti. Chissà dove sta la consolazione della vendetta».

Micaela Palmieri scrive e parla con il cuore.

Per prima cosa, in che modo lei e Renato Vallanzasca vi siete conosciuti?

«Ci siamo conosciuti anni fa. Io volevo fargli un’intervista, incuriosita dalla sua vita sciagurata. Ero una giovane cronista di una televisione locale lombarda e l’ho cercato. Lui era un po’ scettico all’inizio, non ama i giornalisti e i modi che a volte usano, ma poi ci siamo parlati e ha capito che io avrei voluto raccontarlo in un modo un po’ diverso. Ha detto, con una battuta, come spesso fa: “Sì, son qui apposta”.»

Che cosa l’ha intrigata della storia di quest’uomo?

«Tendo a cercare di guardare le cose che non guarda nessuno. Parlando con Renato Vallanzasca ho capito che dietro alla sua vita da bandito dedito alla delinquenza c’erano aspetti che teneva ben nascosti tra le pieghe della sua ribalderia. Mi sono concentrata su questi. Non è una novità che sia stato un rapinatore senza scrupoli, invece è inaspettato l’uomo che dice ai ragazzi che lo idolatrano: “Siete dei cretini se volete essere come me: 53 anni di carcere e dolore inflitto a tutti, anche a chi mi ha voluto bene. Vedete di svegliarvi e di non vivere nei film da scemi che vi propinano.” Credo che, per un giovane, un messaggio così possa valere più di molti divieti o insegnamenti che nemmeno ascolta.»

Mi ha fatto sorridere e pure commuovere un po’ la ripetitività di certi rituali che vi coinvolgono. Per esempio la scelta dello stesso ristorante o il gelato/ghiacciolo prima del rientro in carcere. Cosa trova un ergastolano di tanto rassicurante in un’altra routine, lui che è abituato alla monotonia quotidiana?

«Penso che la ritualità sia rassicurante, per tanti di noi. E per Renato lo è. Nonostante la sua natura scapestrata e la sua fantasiosa irragionevolezza, ha sempre avuto bisogno di normalità. Ed erano anni che la cercava. Adesso, un po’ grazie all’esperienza, un po’ grazie all’età, l’ha trovata. Le sue parole ricorrenti sono: “Io voglio solo stare tranquillo”. Non ama più stare in mezzo alle persone, cerca quella pace che forse non ha mai avuto.»

Lei cos’ha scoperto con questo suo libro?

«Questo libro ha aiutato anche me. Ho scoperto che le persone possono cambiare. E non ci avevo mai creduto veramente prima. Pensavo che, al massimo, solo quelli veramente in gamba potessero evolvere, ma al cambiamento credevo poco. Mi sono dovuta ricredere: Renato è una persona molto diversa. Rimpiange quello che ha fatto o che non ha fatto e, se potesse tornare indietro, farebbe tutto in modo diverso. Le sue parole sono state queste.»

Alla luce delle sue esperienze, prima e dopo ave conosciuto Vallanzasca, che idea s’è fatta del sistema carcerario e del valore educativo della carcerazione?

«Ho fatto alcuni servizi nelle carceri. In generale, il sistema carcerario in Italia ha molte falle: sovraffollamento, solitudine, malattie mentali. Gli oltre 60 suicidi da gennaio sono una sconfitta per tutti. Non è giusto girare la testa dall’altra parte. Poi ci sono carceri diverse dalle altre: io porto l’esempio di Bollate in cui sono stata molte volte, ho incontrato persone, educatori, dal cuore immenso che cercano di comprendere chi hanno di fronte e di aiutarlo veramente.»

“Il carcere non mi ha insegnato niente” dice spesso Vallanzasca. Ho la sensazione che l’italiano medio non capisca quanto sia terribile la privazione della libertà. Riusciremo mai a staccarci dall’idea di giustizia come vendetta?

«Per farlo, bisognerebbe smettere di giudicare e cominciare ad ascoltare, credo. Lo Stato – che poi siamo tutti noi – nei confronti di chi delinque penso che abbia anche un dovere: dopo aver scontato la pena, aiutarlo a tornare nella società da persona differente da come è entrata in galera. Altrimenti, a cosa è servito?»

Prima di leggere il suo libro, pensavo che Vallanzasca fosse una sorta di “bandito griffato”, di sbruffone di quartiere salito quasi inconsapevolmente di livello. Qualcuno pensa sia una sorta di Robin Hood moderno. Lei come la vede?

«In maniera molto diversa da come l’hanno dipinto. Mi ha detto che, se avesse voluto, avrebbe fatto grandi cose con la sua intelligenza e la sua caparbietà, ma da giovane ero pazzo e narcisista e agiva senza pensare alle conseguenze. Non si fa sconti. Dice che ha buttato via la sua vita, distrutto quella di altre persone e, per dirla alla sua prosaica maniera, di aver fatto un sacco di stronzate che non rifarebbe mai.»

L’adrenalina e la sete di avventura sono due brutte gatte da pelare. C’è altro, secondo lei, nel DNA delinquenziale di Vallanzasca?

«Non mi avventurerei nel lato psicologico di Renato Vallanzasca perché non sono in grado di capirlo, ma credo che da giovane avesse assunto questo ruolo di leader anche per essere accettato in un ambiente – il Giambellino, zona non facile di Milano, soprattutto ai suoi tempi – in cui devi trovare un modo per importi o emergere oppure sei spacciato.»

Nell’infermeria, il personale medico dice a Vallanzasca che è malato di leucemia, una bugia crudele. Quante viltà simili vengono perpetrate nell’impunità dei quattro muri delle nostre carceri?

«Io credo che la logica sia sempre un po’ la stessa: quella della sopraffazione. Di chi è in condizione di debolezza che viene in qualche modo vessato da chi comanda: una pratica su cui l’essere umano dovrebbe riflettere.»

Quant’è stato difficile “frequentare” un ergastolano di tal calibro? Intendo, che tipo di paletti le sono stati posti? È stata dura riuscire a “portare a casa” questo libro?

«Non è stata dura perché Renato aveva necessità di raccontare com’è diventato adesso. E la sua è una narrazione anche dolorosa perché annunciava quello che gli stava accadendo: il decadimento cognitivo ormai inarrestabile. Sarà trasferito in una RSA di Padova tra pochi giorni e potrà essere curato almeno un po’.»

Quando ha iniziato ad accompagnare il detenuto Vallanzasca in libera uscita, si è sentita giudicata?

«Le rispondo come avrebbe risposto Renato Vallanzasca: ho smesso si preoccuparmi di quello che pensa la gente tanto tempo fa.»

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