di Luisa Marini
Come è nata l’idea di realizzare un documentario su don Oreste Benzi?
Don Oreste aveva la speciale capacità di entrare nel cuore delle persone, con il suo sorriso disarmante e la sua personalità forte, solare, trasparente. Ha fatto del bene a tantissime persone, è stato coinvolto in tante battaglie per la difesa della dignità di ogni uomo e ogni donna. Ora è stato avviato il percorso per la sua beatificazione.
Io sono nato a Rimini, lui era originario della campagna romagnola; l’ho incontrato nel 1996, e gli sono stato accanto fino alla fine, nel 2007. Era una persona estremamente vitale e lo trasmetteva. Per me è stato un’ispirazione, un modello per fare delle scelte; realizzare questo documentario è stato una necessità, per far conoscere la sua forza e determinazione nell’aiutare gli altri, soprattutto gli ultimi. Ho cercato di trasmettere l’emozione di chi l’ha incontrato, del far sentire gli altri al centro del mondo, grazie a lui che dava forza a chiunque dicendo “ce la possiamo fare a realizzarci nella vita”.
Anche il tuo primo film (“Solo cose belle”, del 2018) è riferito a questa esperienza: racconta la storia dell’incontro di una comunità con gli abitanti di una casa-famiglia, una delle tante aperte in Italia e nel mondo dalla Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata da don Benzi a fine anni Sessanta.
Sì, è come quando scopri qualcosa di bello e senti l’urgenza di condividerlo. “Fare famiglia” ha connotato tutta la prorompente attività di don Oreste e io stesso per vent’anni sono stato responsabile di una casa di accoglienza per senza fissa dimora. Durante questa esperienza ho incontrato persone, volti, storie di emarginazione sociale, solitudine e povertà ma ricche di umanità, che mi sono rimaste dentro e che ho voluto raccontare. Ora le sue case-famiglia sono circa 500 e oltre ad essere presenti Italia ed Europa lo sono anche in America Latina, Asia, Africa.
Perché il titolo “Il Pazzo di Dio”?
Perché dicevano che don Oreste era pazzo a portare avanti certe sue iniziative, a volte impopolari come quella per il popolo rom e sinto, specie quando iniziò il suo impegno per liberare le donne africane vittime di tratta e costrette alla prostituzione. Andava nelle trasmissioni televisive e difendeva il suo punto di vista, rompendo ogni ipocrisia.
Una sua frase è emblematica: “A me non è mai dispiaciuto essere spregiudicato. Spregiudicato vuol dire non mettere i paletti davanti al Dio che viene, all’avventura. A me è piaciuta sempre l’avventura, nel senso etimologico del termine: un qualcosa che viene, e che quindi non c’era. A me piace andare verso ciò che viene, non rimanere fermo a ciò che c’era”.
Hai qualche aneddoto da raccontarci su don Oreste?
Ce ne sarebbero tanti, e qualcuno è nel film, ma penso sia significativo raccontare il motivo per cui ha dedicato la sua vita agli ultimi. Suo padre era un bracciante, e una sera tornò tardi a casa perché aveva aiutato un signore al quale era finita l’auto in un fosso – a quei tempi, (inizio anni 30) ancora non ce n’erano molte in giro. Questi gli aveva dato una mancia e dato anche la mano.
Tornando a casa, il padre posò i soldi sul camino ma raccontando l’accaduto diede soprattutto importanza al fatto che quel signore gli avesse dato la mano. Oreste era piccolo, di 5 o 6 anni, ma successivamente capì che i genitori credevano di far parte di quelle persone che chiedono scusa anche solo di esistere; lui, volendo combattere contro le ingiustizie, entrò in seminario a 12 anni, e divenne prete a 18.
Il film esce tra pochi giorni, il 31 ottobre, quasi in coincidenza con l’anniversario della morte del sacerdote, e con il centenario della nascita, nel 2025. Com’ è stato realizzato?
Il documentario mette insieme il presente e il passato in un unicum narrativo in cui si alternano la profondità e l’intimità delle parole di don Oreste con le voci concitate delle trasmissioni televisive e delle folle riunite nel centro di Rimini a manifestare per il diritto al lavoro dei disabili, il 1° maggio 1973. Abbiamo dunque messo insieme materiali di repertorio degli anni 70 con altri televisivi degli anni 90 e interviste realizzate nell’ultimo anno, incontrando persone che l’hanno conosciuto o sono state toccate dalle sue attività.
Insieme a me, firmano il documentario Giacomo Giubilini, sceneggiatore e consulente editoriale Rai e Miriam Febei della Ass. Comunità Papa Giovanni XXIII e collaboratrice di “Coffee Time Film”. Alla fotografia e alla macchina da presa c’è Luca Nervegna, Matteo Parisini ha curato il montaggio, e la colonna sonora originale è di Daniele Torri e Matteo Santini.
Il documentario è prodotto da “Coffee Time Film”, casa di produzione cinematografica indipendente di Rimini, nella quale lavorano persone cresciute accanto a don Oreste, ed è stato realizzato grazie al sostegno della Film Commission Emilia–Romagna, del Ministero della Cultura – Direzione Generale Cinema e Audiovisivo e di alcune aziende del territorio che hanno scelto di investire nel progetto.
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