di Antonio Salvati
Ogni libro di Federico Rampini fornisce al lettore un’ampia documentazione che gli permette di pensare, di riflettere, di farsi adeguatamente una opinione, anche critica. Accade anche con il volume La speranza africana. La terra del futuro. Concupita, incompresa, sorprendente, (Mondadori, 2023, pp. 335, € 20,00). È un libro per chi vuol provare a capire sul serio le dinamiche e le vicissitudini del continente africano. Un’esposizione finemente ragionata e commentata. Il lettore troverà abbondante food for thought. Come nei suoi volumi precedenti, lo scrittore ed editorialista del Corriere della Sera si cimenta nel compito arduo di sgomberare il campo da pregiudizi radicati nell’opinione pubblica occidentale, compresa quella italiana.
Intanto, l’Africa non è una nazione. Frequentemente la trattiamo come fosse un blocco unico, «con generalizzazioni e stereotipi che sorvolano su differenze enormi (al massimo distinguiamo tra le due Afriche a nord e sud del Sahara, come se questa linea di demarcazione fosse l’unica che conta)». Ad esempio in fatto di natalità e crescita degli abitanti le tendenze sono già ben differenziate. All’estremo nord e all’estremo sud «alcuni paesi sono entrati da tempo in una curva demografica nuova. Fanno meno figli e l’incremento demografico rallenta. L’intero Maghreb e il Sudafrica sono entrati per primi in quella fascia di paesi emergenti dove il comportamento riproduttivo si modernizza rapidamente».
Tra le diverse questioni affrontate da Rampini vi è quella dell’ascesa prepotente del fenomeno pentecostale che non riguarda solo la Nigeria dove è particolarmente diffuso. Non riguarda neanche l’Africa soltanto. Abbraccia – com’è noto – il Grande Sud globale, incluse l’America Latina e l’Asia. È una religiosità che noi italiani – sottolinea Rampini – non comprendiamo. Siccome apparteniamo a una nazione di origini cattoliche – anche quando individualmente possiamo avere storie diverse –, «tutte le altre religioni ci arrivano deformate dall’interpretazione della Chiesa romana. Che contro i pentecostali è faziosa. Non c’è nulla di strano. Ognuno difende il proprio territorio e quello del cattolicesimo si restringe, minacciato da molti sfidanti. I pentecostali avanzano impetuosi e in Africa hanno ridotto l’influenza del Vaticano. Possiamo condividere o meno l’ostilità cattolica, però prima dobbiamo cercare di capire un fenomeno che sta cambiando intere aree del mondo, Africa in testa». Sono considerazioni parzialmente condivisibili in quanto da tempo diversi cattolici si stanno interrogano sulla cosiddetta “Teologia della prosperità”, il nome più conosciuto e descrittivo di una corrente teologica neo-pentecostale evangelica.
La filosofia di questa “teologia” sta nella convinzione che Dio vuole che i suoi fedeli abbiano una vita prospera, e cioè che siano ricchi dal punto di vista economico, sani da quello fisico e individualmente felici. Questo tipo di cristianesimo colloca il benessere del credente al centro della preghiera, e fa del suo Creatore colui che realizza i suoi pensieri e i suoi desideri. Non è una forma di ostilità avanzare la preoccupazione che il rischio di questa forma di antropocentrismo religioso, che mette al centro l’uomo e il suo benessere, è quello di trasformare Dio in un potere al nostro servizio, la Chiesa in un supermercato della fede, e la religione in un fenomeno utilitaristico ed eminentemente sensazionalistico e pragmatico. Ciò nonostante, agganciare lo studio della sociologia dei pentecostali a un’analisi delle conseguenze politiche e perfino geopolitiche di questo movimento è utile e necessaria. Infatti, insieme con la rivoluzione nella vita quotidiana portata dalla diffusione del telefonino, «l’altro cambiamento profondo nell’Africa contemporanea – spiega Rampini – è l’avanzata travolgente di una nuova religiosità, anzi due: sul fronte cristiano e su quello islamico. Giovani e donne forniscono la base di massa di queste due riscoperte religiose. Ma con due segni diversi, opposti. Cristianesimo e Islam indicano due futuri alternativi all’Africa, pro o contro l’Occidente. L’impatto sarà mondiale perché lo scontro attuale e futuro tra le due grandi religioni monoteiste si giocherà nel continente nero». Già nel 2015 il 16 per cento di tutti i musulmani e il 26 per cento di tutti i cristiani del mondo vivevano a sud del Sahara. Entro il 2026 queste percentuali saranno salite al 27 per cento per i musulmani e al 42 per i cristiani. Cioè quattro cristiani su dieci saranno nell’Africa subsahariana. Però cristiani non necessariamente vuol dire cattolici.
È un protestantesimo spesso descritto in modo caricaturale, ridicolizzandolo: i tele-evangelisti carismatici, le mega-Chiese gestite come dei business, le funzioni religiose tenute negli stadi sportivi (a Kampala, in Uganda, c’è un grande stadio coperto che è il Miracle Center Cathedral, la cui costruzione è costata sette milioni di dollari) con i momenti di “estasi” collettiva che prefigurano il “rapimento in cielo”, l’esaltazione del successo economico e quindi la monetizzazione della fede. Altrettanta ostilità trasuda proviene dal mondo islamico, almeno quello che ha imboccato la strada opposta rispetto al protestantesimo. Molti musulmani dell’Africa subsahariana sono storicamente salafisti, fondamentalisti che seguono un’interpretazione letterale del Corano. Per i giovani africani che aderiscono all’Islam, questa fede è una barriera protettiva contro ogni contaminazione culturale dall’Occidente. I protestanti pentecostali, al contrario, perseguono un’occidentalizzazione estrema. I templi pentecostali in Africa sono stati definiti “le chiese della gioventù” perché l’età media dei fedeli è molto bassa. Eppure il fenomeno pentecostale nasca quarant’anni fa. Essendo definito anche «Vangelo della prosperità», si pone in chiara contrapposizione rispetto al cattolicesimo. Nelle Americhe (Nord e Sud), queste forme di protestantesimo non aborriscono il denaro come «lo sterco del diavolo», non predicano la rinuncia, non esaltano la povertà. Del resto, che attrazione avrebbe – osserva Rampini – esaltare il valore morale della miseria in un continente come l’Africa che ne ha troppa? I giovani pentecostali dell’Africa subsahariana sono più individualisti dei loro genitori, credono nel successo economico e nel benessere. Il loro modello di vita ideale, è l’imprenditore. Perciò prendono le distanze da certe abitudini e stili di vita comunitari che appartengono alla tradizione africana. Un mutamento antropologico di non poco conto. Rampini coglie il punto che questa «rivoluzione carismatica» si percepisce anche come una missione civilizzatrice guidata da nuove generazioni che vogliono svegliare la società civile, renderla protagonista dello sviluppo economico. Il neoprotestantesimo africano ci coglie impreparati e sconcertati, soprattutto quando fa irruzione in casa nostra, tanto quanto il fondamentalismo islamico. Tra gli immigrati che arrivano dall’Africa nei nostri paesi, tutte le nuove religioni sono molto diffuse. Sono fedi che comandano il proselitismo e spesso confliggono con i modelli valoriali dei paesi ospiti. Jihadisti e protestanti sono i due poli opposti: i primi odiano l’Occidente e vogliono distruggerne i valori; i secondi esaltano una versione dell’Occidente molto più americana che europea. Questa «invasione pentecostale», con un’immigrazione africana portatrice del sogno di una rivoluzione capitalista, non è meno difficile da assorbire rispetto al fondamentalismo islamico. Il grande sociologo tedesco Max Weber scrisse L’etica protestante e lo spirito del capitalismo.
Oggi potrebbe aggiungere un capitolo africano. Del resto, i predicatori pentecostali sono degli imprenditori della religione e della politica, sia perché riempiono un vuoto di valori, occupano uno spazio sul mercato delle idee; sia perché sono capaci di fare soldi. E quest’ultimo non è un talento – sottolinea Rampini – di cui vergognarsi a priori, soprattutto nell’Africa di oggi.
Rampini mette in guardia sia dall’Afrocalisse, cioè il ritratto di un Continente perduto, travolto dalle emergenze e dalle tragedie, sia dall’Afroeuforia, ovvero la propaganda promossa da alcuni leader africani «per attirare investitori stranieri e pavoneggiarsi al World Economic forum di Davos». Noi europei restiamo bloccati «in una rappresentazione di questo continente tanto tragica quanto superficiale, disattenta, incapace di cogliere le novità e di ascoltare ciò che gli africani più acuti ci dicono su sè stessi». Dovremmo iniziare a guardare con più «attenzione a un’area del mondo che si candida a diventare (e in parte già lo è) un polo produttivo, un brillante riferimento culturale, nonché uno snodo strategico per gli equilibri politico-militari». E soprattutto porre fine all’espiazione dei nostri peccati coloniali. Buona parte della comunità museale d’Occidente è impegnata ad autoflagellarsi per gli orrori del nostro passato. In questi riti di pentimento vengono spesso annunciate restituzioni di opere d’arte alle ex colonie depredate. Un caso esemplare si trova nella capitale dell’Unione europea, a Bruxelles, dove era situato il Musée du Congo alimentato dal bottino di re Leopoldo, uno dei colonialisti più spietati e feroci della nostra storia (com’è noto i suoi crimini ispirarono il romanzo Cuore di tenebra di Joseph Conrad). Fino al 1870 “solo” il 10 per cento dei territori africani erano colonie altrui; alla vigilia della prima guerra mondiale, nel 1914, il 90 per cento del continente era ormai colonizzato, ad eccezione di Etiopia e Liberia. Quella fu «the scramble for Africa», termine che ricorre in tutti i manuali di storia. Il colonialismo – per inciso – fu tutt’altro che monolitico, l’impatto dei belgi o dei portoghesi fu tra i peggiori, quello degli inglesi ebbe anche aspetti positivi, per esempio nel delegare potere alle élite locali contribuendo al consolidamento di una classe dirigente prima ancora della decolonizzazione. «The new scramble for Africa» è diventato un luogo comune. Siamo in presenza di una nuova corsa per la conquista del continente nero. I protagonisti oggi sono altri: la Cina in testa, ma anche la Russia, e dietro arrancano gli Stati Uniti e l’Europa; in certe zone dell’Africa è ben visibile anche il ruolo dell’Arabia Saudita, degli Emirati, della Turchia, dell’India. Diverse potenze esterne sono assai interessate ad alcune risorse di cui l’Africa è ricca: tante materie prime, in particolare quelle energetiche, minerali, in certi casi agricole. Nel lungo elenco spiccano terre rare e metalli strategici il cui uso è cruciale per la transizione verso un’economia decarbonizzata. Il cobalto del Congo è un esempio ricorrente, in mezzo ad altri. Dunque sarebbe cominciata una nuova corsa, e una nuova spartizione, con l’Africa sempre nel ruolo della preda? Lo stereotipo è fortissimo, irresistibile. Decisamente forte il rispetto che incute la Cina: la più gigantesca delle nazioni povere ancora fino al dopo-Mao negli anni Settanta e Ottanta, è la più grande tra quelle che a oggi «ce l’hanno fatta».
Nei suoi confronti c’è anche un interesse da parte di settori della popolazione africana che non sottoscrivono per forza i principi del Partito comunista guidato da Xi Jinping. Ma guardano comunque a Oriente, anziché a Occidente, «per il semplice fatto che in Asia esistono i precedenti di uno sviluppo ancora recente, fresco nella memoria, partito da condizioni iniziali non dissimili da quelle africane».
L’Asia ha sollevato dalla miseria un miliardo di persone in una sola generazione. Può l’Africa essere la prossima Asia? Non molto tempo fa, avverte Rampini, numerose nazioni asiatiche si trovavano in condizioni simili a gran parte dell’Africa contemporanea: stremate dalla miseria, troppo dipendenti dalla vendita di materie prime, afflitte da problemi di instabilità politica e sociale, e con poche prospettive di impiego per le popolazioni urbane in forte aumento. Solitamente analizzando a posteriori i numerosi miracoli asiatici – oltre a Singapore e Corea vanno ricordati Taiwan e Hong Kong, poi la Cina, infine Vietnam, India, Indonesia e altri ancora – utilizza delle giustificazioni che sembrano ovvie e invece non lo sono. Con faciloneria, o malafede, si afferma che «era naturale». Negli anni Sessanta o Settanta nessuno previde una performance asiatica così fenomenale. Donde «il ricorso al termine “miracolo”, per quanto discutibile visto che non stiamo parlando di eventi magici o soprannaturali». Questo discorso vale per il fenomeno opposto, cioè la delusione africana. Anche qui non ci sono spiegazioni facili né ovvie. Un occidentale medio – allenato a considerarsi il centro dell’universo, «il che nella versione odierna significa nutrire i propri complessi di colpa in modo ossessivo» – è di trovare una spiegazione “coloniale”. Se l’Africa non ce l’ha fatta, in questa versione molto diffusa, «deve essere naturalmente colpa nostra».
Come dicevamo, il colonialismo, seguito da forme di sfruttamento postcoloniali, è invocato come la causa di tutto: «noi» abbiamo reso impossibile un miracolo africano paragonabile a quello singaporiano. In realtà, anche Singapore è stata una colonia dell’Occidente (della Gran Bretagna, come il Kenya). In effetti ha ottenuto la sua indipendenza solo nel 1965, cioè un anno dopo lo Zambia. Diversi paesi asiatici sono stati colonie dell’Occidente ben più a lungo degli Stati africani. Dal 1960 al 2010 l’Africa ha ricevuto dall’Occidente, al netto dell’inflazione, somme pari a 20 volte il Piano Marshall (12,7 miliardi del dopoguerra). Eppure non sono bastate a fare decollare lo sviluppo economico. Al contrario hanno creato «dipendenza, deresponsabilizzazione» delle classi dirigenti locali. Come ha scritto l’economista Dambisa Moyo: «Tra il 1970 e il 1988, periodo in cui l’Occidente dominava l’Africa, i flussi di aiuti americani ed europei raggiunsero il massimo livello, eppure la povertà salì dall’11 al 66% della popolazione». Da questo punto di vista sono molto più efficaci le rimesse dei migranti, i soldi inviati alle famiglie rimaste a casa, che già dal 2010 hanno sorpassato l’ammontare degli aiuti umanitari. L’insieme del continente nero ha agganciato la modernità come consumatore di nuove tecnologie, ma tuttora ha un ruolo molto marginale nella loro produzione, in generale resta un nano in ogni attività manifatturiera. Il dibattito e il confronto sul modello asiatico – e sugli eventuali benefici dell’espansione cinese – è legato a questa consapevolezza: «non si passa dall’agricoltura di sussistenza allo sviluppo basato su servizi e tecnologie senza una tappa intermedia fatta di fabbriche. È una delle lezioni del decollo cinese, e potrebbe essere il capitalismo di quel paese a esportarla anche in Africa». Selezionare casi positivi – come fa tutto il volume – aiuta ad allontanarci da un pessimismo accecante, che ci ha impedito di capire la portata del cambiamento che sta avvenendo in Africa. È uno stimolo – spiega Rampini – a cogliere le diversità di un continente immenso e percorso da tendenze molteplici, in contrasto con la rappresentazione monolitica nella maggior parte dei media, nell’accademia e nella cultura pop.
L'articolo La speranza africana: un futuro promettente tra sfide e opportunità emergenti proviene da Globalist.it.