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“Mercoledì delle Ceneri”: la verità nascosta dietro i riti religiosi

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di Alessia de Antoniis

“Mercoledì delle Ceneri è una storia di violenza popolare” – racconta la regista Valentina Esposito – “una di quelle storie che si possono raccontare dappertutto e a tutti quanti, una di quelle storie che le capiscono anche i bambini, tanto sono conosciute, tanto sono familiari, ma che tutti devono riascoltare perché ogni volta, come per miracolo, le dimenticano… tutte le volte le ascoltano, le riconoscono e poi le dimenticano, come se non l’avessero mai sentite, come se non l’avessero mai conosciute. Pure se sono storie di tutti i giorni, che si ripetono tutti i giorni, lungo le strade, dentro le case, dentro le famiglie. E bisogna ricominciare sempre daccapo”.

Ha debuttato in anteprima assoluta al Teatro Biblioteca Quarticciolo “Mercoledì delle Ceneri”, nuova produzione della Compagnia FACT – Fort Apache Cinema Teatro, unica realtà teatrale stabile in Italia ed Europa formata da attori ex detenuti e detenuti in misura alternativa, oggi professionisti di cinema e palcoscenico. Lo spettacolo, scritto e diretto da Valentina Esposito, segue il successo delle due precedenti produzioni, “Famiglia” e “Destinazione non umana” e si inserisce nel programma della XVIII edizione del Premio Tuttoteatro.com – “Dante Cappelletti”, affrontando il tema della violenza di genere e del corpo ferito, segnato e abusato fino alla negazione dell’identità, proprio a ridosso della ‘Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne’.

Una pièce contro la violenza di genere. Superficialmente potremmo definire così “Mercoledì delle ceneri”: un testo ben scritto da una valida drammaturga contemporanea attiva nel sociale. Ma quando si riaccendono le luci c’è una cosa che comprendi: che non sai nulla di quello che fai, che dici, che canti, che racconti da quando sei piccola. Anzi, sei convinta di far parte di una lunga catena che dal remoto passato tramanda storie che è un peccato perdere, abbandonare all’oblio; sei un anello di quella tradizione che è importante trasmettere. Senza renderti conto che l’unica cosa che doni all’oblio è l’anima delle donne. Che l’unica cosa che tramandi, che nutri, è una cultura patriarcale e violenta che non ha colore, non ha stemmi, non ha ideologia. È invisibile come un gas tossico. Letale come il più potente dei veleni che bevi con gioia dissetando la tua gola arsa. E tu sei un anello di una catena, sì, ma che tiene prigioniera te, tante altre e tanti altri.

Quanti riti festeggiamo con gioia? Ogni più sperduto paesino ha la sua festa, il suo santo, la sua processione. Miscugli di riti pagani e cristiani che stordiscono da millenni menti intorpidite da falsi miti. Come la santa di un paesino come tanti che viene bruciata. È il fantasma del martedì grasso, con uomini, prete compreso, che pagano per danzare con lei prima della Quaresima. “Tanto poi domani chiedo perdono”. Una notte durante la quale viene bruciato cosa? Un manichino di una donna o i diritti di tutte le donne? Una notte di trasformazione: ma di chi? Una notte che chiude un “carnevale dove siamo tutti uguali”: tutti uguali o tutti accettati perché mascherati?

Sul palco viviamo la festa in onore della femmina morta: Rosa, la femmina morta santificata. Essere martire è sinonimo di violenza, non di fede. Santa Agata: torturata, le vennero mutilati i seni, poi fu posta su carboni ardenti e infine morì in prigione; e ancora Barbara, Agnese, Perpetua, Felicità, Caterina, Cecilia, Lucia: sono solo alcuni nomi di donne, spesso adolescenti, violentate, torturate, arse vive, brutalmente seviziate e smembrate. Ma noi sappiamo che sono sante. No, sono donne vittime di violenza inaudita da parte di estranei, ma anche di padri e mariti. Tutto il calendario è la santificazione del femminicidio. Femminicidi dove il nome dell’assassino è, quello sì, finito nell’oblio, mentre pletore di donne continuano a tramandare il patriarcato.

Perché se il patriarcato è uomo, chi lo diffonde è spesso donna. Come è una giovane donna che, sul palco, aiuta una coetanea ad indossare il busto di fili di ferro che sostiene il feticcio della santa: come i bustini di foggia rinascimentale, settecenteschi o vittoriani, che costringevano i corpi femminili in veri strumenti di tortura quotidiana in nome di canoni estetici fatti per piacere a un uomo, la giovane entra in un busto metallico che modella la sua anima, la sua mente, la sua indipendenza, rendendola conforme ai dettami di una società maschile e maschilista. Chi glielo ordina è un uomo – “da sta gabbia non ce esci più. Na vorta che ce entri ce devi da restà. Questa maschera prima o poi la indosserai” – ma chi la aiuta è una donna. La gabbia del patriarcato, la maschera criminale del nostro tempo.

Valentina e tutta la compagnia FACT (bravissimi Alessandro Bernardini, Fabio Camassa, Luca Carrieri, Matteo Cateni, Chiara Cavalieri, Viola Centi, Massimiliano De Rossi, Roberto Fiorentino, Marcello Fonte – Palma d’oro al Festival di Cannes per Dogman – Sofia Iacuitto, Gabriella Indolfi, Giulio Maroncelli, Claudia Marsicano, Giancarlo Porcacchia, Cristina Vagnoli, Camila Urbano) portano brillantemente in scena riti antichi, danze popolari, filastrocche per bambini, violenza come riti di passaggio per la santità che lava peccato e peccatore; l’aura della santità che maschera femminicidi e stupri.

Un popolo di bigotte (meravigliosamente vestite con i costumi di Mari Caselli e Costanza Solaro Del Borgo, creatrici anche dei fantocci, e con le meravigliose e inquietanti teste in lattice di Gemelli Magrì), che come un coro da tragedia greca, ripetono frasi agghiaccianti che ancora oggi riecheggiano dai bar ai tribunali: “se vai al fiume da sola, ci sta che qualcuno ti ammazza; l’uomo è cacciatore; se abbassava la testa campava; e che la Madonna dice di no all’Arcangelo Gabriele?; meglio sottomessa e viva che stuprata e morta”. Un popolo di donne senza volto, ma anche senza orecchie e senza coscienza: “Hai sentito lo sparo? Che sparo? Qua siamo tutte sorde”.

Da segnalare la scenografia di Andrea Grossi, la pupazza di Edoardo Timmi, le musiche di Luca Novelli, le luci di Alessio Pascale, il sound design di Simone Colaiacomo.

“I mostri che hai indossato il martedì li svesti il mercoledì, ma loro sono sempre lì, abitano lì, dentro di te”. È un testo potente, quello di Valentina Esposito, che urla cosa c’è dietro le innocue forme d’arte che nascondono la cultura dello stupro, della violenza di genere – contro ogni genere – il patriarcato; cosa cela la religione, che non è semplicemente l’oppio dei popoli, ma l’assoluzione dal millenario reato di genocidio delle meravigliose singolarità umane. Se sei un fiore come me hai il diritto di sbocciare, se sei diverso o diversa vai sradicato…in nome della pulizia e dell’arte topiaria. E che nessuno tocchi il giardiniere.

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